Presentazione del libro del Prof. Giancarlo Elia Valori “Globalizzazione, Governance, Asimmetria. L’instabilità e le sfide della postmodernità”

Roma, 21 novembre 2018

Tempio di Adriano, sala storica della CCIAA, P.zza di Pietra

Il nuovo, importante lavoro del Professor Valori appassiona, a mio modo di vedere, soprattutto per due motivi.

Il primo motivo è quello di una “interpretazione propositiva” della realtà internazionale “post-moderna” come lui elegantemente la definisce; o “post-globale” come altri preferiscono chiamarla, con venatura polemica contro il c.d. “mondialismo” e la sua parente prossima, la “globalizzazione”.

Il secondo angolo di lettura di questo libro riguarda il ritorno potente della geopolitica, in questo decennio, nello studio delle relazioni internazionali.

Le proposte, originali e fuori dagli schemi di diplomazie ingessate che Giancarlo Elia Valori avanza per la nostra politica estera e i nostri interessi nazionali -in Europa, con l’America di Trump, la Russia di Putin, la Cina di Xi Jinping, nel Mediterraneo e in Medio Oriente- sono ancorate a una solida analisi geopolitica, nella accezione contemporanea del termine. Parlandone tempo fa a Bergamo, a proposito del Mediterraneo Valori sottolineava che “la politica estera è figlia della geografia. L’Italia dovrebbe riscoprire le proprie radici greco-mediterranee… il nostro Paese nasce come progetto geopolitico romano e unitario… occorre dar vita a un nuovo asse di collaborazione mediterranea non solo tra nord e sud dell’UE, ma anche tra l’Italia e i nuovi attori globali. Il nostro Paese è il punto di contatto tra l’Europa continentale e il Mar Mediterraneo…”

Scrivendo durante gli anni della Guerra Fredda di geopolitica e equilibrio tra le Grandi potenze, Hans Morgenthau osservava come l’espansione verso spazi geografici relativamente liberi nel XVIII e XIX secolo in Africa, nell’Eurasia, in Nordamerica, spostava le politiche di potenza verso la periferia della terra, riducendo le conflittualità.

Ad esempio, maggiore era l’attenzione accresciuta che Russia, Francia, USA dedicavano alla propria espansione imperiale in territori lontani, minore era l’attenzione che essi dedicavano alle rivalità tra loro, rendendo in un certo senso il mondo più pacifico. Ma alla fine del XIX secolo grandi Stati nazionali e imperi Occidentali si consolidavano, e guadagni territoriali potevano avvenire solo a spese uno dell’altro. Morgenthau concludeva “Mentre l’equilibrio tra le potenze -con il suo baricentro in tre continenti- diventa mondiale, la dicotomia tra centralità delle grandi potenze e la periferia con i suoi spazi vuoti deve necessariamente sparire. La periferia ora corrisponde con i confini della terra.

“McNeill, in “The Rise of the West” esemplifica sull’esperienza cinese: “Gli Han nell’antica Cina imposero la calma ai disordini tra stati che si combattevano erigendo una strutturata burocrazia imperiale che ha resistito, con occasionali rotture e aggiustamenti, quasi sino ai nostri giorni. Gli Stati in guerra del XX secolo sembrano andare nella stessa direzione.”

Il crollo del Muro di Berlino sembrava dare ragione all’ottimismo di McNeill. Eppure il mondo post-moderno, come descrivono le pagine di Valori, è persino più pericoloso di quello del Muro. I residui “spazi vuoti” di Morgenthau sono chiusi da un pezzo, la globalizzazione ha accelerato sovrapposizioni di ogni genere, moltissime di natura competitiva e conflittuale, come emerge dalla descrizione di Valori. Tra queste, nella geopolitica hanno fatto irruzione nuove forze: culturali e religiose come l’Islam sempre meno individuabili solo territorialmente; si moltiplicano le sfide del terrorismo, dell’ambiente, delle mutazioni climatiche; sono diventate dominanti in politica, economia, nella sicurezza e nella Difesa le tecnologie Cyber, con la componente in gran parte inesplorata dell’Intelligenza Artificiale.

Ecco perché la nozione stessa di interesse nazionale evolve così rapidamente.

E il libro “Globalizzazione, Governance, Asimmetria” fornisce un “tool box”, notevolissimo. Vorrei riprendere alcune annotazioni su Cina, Russia, e  Mediterraneo.

Il clima incondizionatamente positivo con il quale i Governi delle democrazie occidentali sostenevano collaborazioni a coperture verso il grande mercato cinese è profondamente cambiato non soltanto con l’inizio della Presidenza Trump; ma anche con l’avvio del secondo mandato del Presidente Xi Jinping, la riorganizzazione profonda della governance e delle politiche di Pechino, le iniziative economiche, finanziarie e di proiezione strategico-militare a livello globale.

 Da molti mesi oramai voci preoccupate si levano nel “vicino estero” della grande realtà cinese come nei paesi più lontani, dall’Eurasia, al Mediterraneo, all’Oceano indiano sino all’Atlantico meridionale. Da molti mesi leggiamo analisi che rappresentano oramai il leit-motiv dominante in molti paesi occidentali e nelle economie emergenti.

Sulla Cina, si sta arroventando il dibattito quanto alle vere motivazioni politiche e strategiche di Pechino con i progetti “One Belt One Road” e “China 2025”. Un dibattito che riguarda il nostro Paese. Lo dimostra l’indagine conoscitiva sulle politiche di investimento (cinese) in Italia e in Europa nei settori strategici, appena avviata dalla Commissione esteri della Camera dei Deputati. In Cambogia, ad esempio, come in altre parti dell’Asia, sino all’Europa, all’America Latina e al Mediterraneo, Pechino utilizza ingenti risorse in una “sharp diplomacy” basata su valori alternativi rispetto a quelli delle società sulle quali si reggono le democrazie occidentali. In questa visione “revisionista” dell’ordine multilaterale, giuridico e politico, dell’intero dopoguerra e soprattutto del dopo “guerra fredda”, Pechino trova alleati di convenienza, in una sorta di “combinazioni à la carte” con Mosca, Teheran, Caracas, L’Avana e una platea abbastanza numerosa – anche se non prevalente – di sostenitori degli “uomini forti” ai quali affidare, per un motivo o per l’altro i nostri destini.

 

Cosa sta accadendo in Cina?

Sin dallo scorso Marzo, l’Economist scriveva: “La Cina è passata dall’autocrazia alla dittatura. Questo è avvenuto quando Xi Jinping, l’uomo più potente del mondo, ha fatto sapere che avrebbe cambiato la costituzione della Cina così da poter governare come presidente per quanto tempo volesse. Dopo Mao nessun leader cinese ha mai avuto così tanto potere.

Dopo il collasso dell’URSS, l’Occidente ha accolto il nuovo grande continente comunista nel suo ordine globale. I leader occidentali credevano che inserire la Cina in istituzioni quali il WTO avrebbe mantenuto le sue grandi potenzialità all’interno di un sistema di regole costruito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Speravano che l’integrazione economica avrebbe incoraggiato la Cina a evolvere verso l’economia di mercato e, il suo popolo avrebbe ottenuto maggiori libertà democratiche e diritti.

Per diversi decenni, sembrava che questo potesse accadere.

La Cina è diventata enormemente più ricca. Sotto la guida di Hu Jintao la scommessa dell’Occidente sembrava ripagata. E quando Xi Jinping prese il potere cinque anni fa si credeva ancora che la Cina si sarebbe mossa verso lo Stato di Diritto e l’adozione di una Costituzione che vi si ispirasse. Oggi quest’illusione è scomparsa. Xi Jinping ha indirizzato la politica e l’economia verso un crescente autoritarismo, controllo e repressione delle libertà individuali. Il Presidente ha usato il suo potere per riassestare il dominio del partito comunista. Ha annientato i rivali. Ha creato nuove Forze Armate e riportato l’intero sistema di sicurezza, intelligence e Difesa sotto il suo diretto controllo.

La nuova leadership si è mostrata dura nel reprimere ogni forma di dissidenza creando una sorveglianza di stato per monitorare lo scontento e le ribellioni. Alla Cina non interessa come vengono governati gli altri paesi, a patto che non interferiscano con il sistema di potere a Pechino. La Cina sta diventando sempre più un antagonista della democrazia liberale. L’autunno scorso il Presidente Xi Jinping  ha offerto una teorizzazione proponendo che i Paesi partners della Cina comprendano la saggezza cinese e l’approccio cinese alla soluzione dei problemi. Xi Jinping precisava che la Cina non esporterà il suo modello. Si percepisce tuttavia che l’Occidente e l’America hanno nella Cina non solo un rivale economico, ma anche un antagonista ideologico e strategico.

La scommessa per l’integrazione dei mercati ha avuto successo. La Cina è stata integrata nell’economia globale. È il primo esportatore al mondo, con più del 13% del totale. Ha creato una prosperità straordinaria per se stessa e per chi fa affari con lei. Tuttavia la Cina non ha un’economia di mercato, e ne resta assai distante. Controlla il commercio come arma del potere statale. Molte industrie sono strategiche e dipendono dallo Stato. Il piano “Made in China 2025” punta a creare leader mondiali in dieci settori industriali tra i quali l’aviazione, la tecnologia e l’energia, che coprono quasi il 40% del tessuto manifatturiero.

La Cina condivide il sistema di regole esistente nella società internazionale, ma sembra anche progettare un sistema parallelo “revisionista”, autonomo e alternativo. L’iniziativa “One Belt One Road”, che prometteva di investire $1tn in mercati esteri e ispirarsi al piano Marshall, è uno schema per sviluppare il Nord della Cina, ma soprattutto crea una rete di influenza che impone il “sistema cinese” e il controllo di Pechino.

 

L’Occidente starebbe perdendo la sua scommessa con la Cina e in questo senso sembra porsi anche l’analisi del Prof. Valori: proprio quando le democrazie liberali stanno attraversando una crisi di identità. Trump ha visto la minaccia cinese ma se ne preoccupa soprattutto in termini di deficit commerciale. La sua promessa di rendere “l’America grande ancora” si scontra con la tendenza all’unilateralismo nel Pacifico, culminante nella rinuncia al Transpacific Trade and Partnership.

L’Occidente ha certamente bisogno di ridisegnare i confini della sua politica verso la Cina.

 

Il richiamo all’identità nazionale per legittimare politiche realiste non manca certamente in Asia: nel Mar della Cina sono ancora i diritti storici, le consuetudini nazionali, la proiezione marittima del Celeste impero quattrocentesco a giustificare, nell’affermazione di identità e interesse nazionale, la recinzione del Mar della Cina meridionale, sanzionata dal Tribunale Arbitrale dell’UNCLOS.

Per decenni Pechino ha preferito il ‎basso profilo, “the peaceful rise”. Ora essa rompe i vecchi tabu. Si dota di basi militari da Gibuti alla Cambogia, sviluppa sfere di influenza e zone cuscinetto rispondenti a propri interessi strategici, stipula alleanze che dimostrano il pieno superamento delle tesi di un “non allineamento” superato.

La geopolitica evolve verso un sistema semi-bipolare nel quale Cina e Stati Uniti cercheranno intese globali, sul clima, il commercio, la sicurezza cyber, mentre continuerà probabilmente a inasprirsi il confronto sulla sicurezza e la libertà di navigazione nel Pacifico. La dimensione e la vitalità economica dei due paesi, la presenza globale delle loro imprese, la diversificazione produttiva, l’enfasi sulla ricerca e sull’educazione, ne fanno comunque già ora i due assoluti protagonisti sulla scena mondiale.

 

Nell’accennare a forze e interessi che alimentano la conflittuali-tà internazionale, vorrei riservare qualche breve osservazione a quella regione – il Grande Mediterraneo – che più interessa, o che per lo meno più dovrebbe interessare l’Europa nel suo insieme, e sicuramente l’Italia: non solo per i rischi e le possibili conseguenze dei conflitti in atto, ma anche per l’addensarsi di nuovi attori e la rapidissima evoluzione degli equilibri geopolitici.

 

Il libro del Prof. Valori contiene, come sottolinea sin dall’introduzione e dal primo capitolo sull’interesse nazionale italiano, una trattazione molto ricca del “New Great Game dal Mediterraneo al Medioriente”. A dimostrazione della priorità che per Valori riveste – molto giustamente –  una vera politica mediterranea italiana ed europea, quasi la metà del libro riguarda  il grande mare e il Medioriente, le molteplici sfaccettature e avanza importanti proposte.

Queste sono di estrema attualità dato l’esito della Conferenza sulla Libia dei giorni scorsi a Roma, che ha finalmente posto in evidenza ruolo e capacità della Diplomazia italiana, se attentamente guidata e sostenuta, ad essere protagonista di un contesto geopolitico – Libia e Mediterraneo Centrale – di vitale importanza per il paese.

 

Sono stato anche io critico, sino allo scorso anno, di una gestione del dossier libico passivamente appiattita sulle deliberazioni dell’Onu e, come dice efficacemente il Prof. Valori sulle “gerarchie inutili dell’europeismo”.

L’auspicio è oggi che le incomprensioni italo-francesi siano state superate e si possa finalmente lavorare insieme agli altri partners globali e regionali per la ricostruzione di un percorso che vada oltre gli Accordi di Skhirat.

 

Gli ultimi due decenni sono stati lo sfondo del processo di Barcellona. In tutto questo periodo vi è stato sicuramente un elemento di grande continuità nella politica estera dell’Italia: la cooperazione mediterranea. Dalla fine della Guerra Fredda ogni Governo italiano ha posto in cima alla propria agenda la politica Mediterranea. Non si tratta di una mera opzione. Si tratta una necessità vitale per la nostra sicurezza, i nostri interessi economici, e per i valori fondanti della nostra identità. Tutto ciò non ha peraltro impedito una diversità anche marcata di visione e di proposte tra le forze politiche quando si entra nel vivo della discussione sulle modalità della cooperazione, del dialogo, dei rapporti da sviluppare con i paesi partner nella regione mediterranea. Ancor più oggi che in passato, la politica estera e di sicurezza è al centro di dibattiti divisivi, spesso offuscato da fake news e da divergenti narrative. Lo vediamo bene su temi che possiamo ben definire “di crisi”. Siano questi l’immigrazione, il terrorismo, il fondamentalismo islamico, l’energia, l’ambiente e il clima, gli stati falliti, le relazioni con Russia, Cina, Iran da un lato, e con gli Stati Uniti di Trump dall’altro.

 

La preoccupazione per la conflittualità nel Mediterraneo dovrebbe suscitare una precisa consapevolezza circa l’interesse nazionale ed europeo, e la portata della posta in gioco. C’è la necessità di ricomporre narrative e interpretazioni sulle forze che stanno trasformando il Grande Mare.

Tra i principali e nuovi “attori statuali” della trasformazione sono certamente la Russia, l’Iran, e la Cina. Nelle crisi in atto e in quelle che potranno ulteriormente prodursi, il ruolo di questi nuovi players non può essere affatto sottovalutato.

Dall’agosto 2013 la Russia e l’Iran hanno guadagnato una posizione dominante nella guerra civile siriana, e ne indirizzano la conclusione verso una soluzione essenzialmente militare. Per numero di vittime, crimini contro l’umanità, distruzioni quella siriana è una catastrofe mai sperimentata dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Dal 2012 si è constato un disimpegno crescente degli Stati Uniti in Siria e per molti versi in Iraq, i due Paesi di maggior importanza nei disegni espansionisti del regime iraniano. Dal 2013 vi è poi stato un fortissimo impulso del Presidente Obama per la completa normalizzazione delle relazioni con l’Iran attraverso un accordo nucleare concluso, come molti ritengono ormai, “ad ogni costo”. Un accordo dal quale gli USA di Trump sono voluti rapidamente uscire. Nello stesso tempo è stata lasciata carta bianca al Presidente Putin per iniziative militari e diplomatiche in tutta la regione, e soprattutto in Siria, sotto l’egida della guerra allo Stato Islamico e dell’antiterrorismo.

Mosca ha fatto leva sull’antiterrorismo per porsi come “honest broker” a seconda dei momenti e delle convenienze, anche con la Turchia e con Israele.

 

Il conflitto in Siria, che sin dal 2011 preannunciava una sua rapida metamorfosi in conflitto regionale e per alcuni versi globale, ha rappresentato la “tempesta perfetta” per un grande stratega come Putin. gli ha consentito di acquisire un ruolo che neppure i più ottimisti tra i leader comunisti della vecchia URSS avrebbero forse sperato di conseguire, nell’altalenante competizione di influenza e di alleanze nel Mediterraneo tra gli anni 50 e gli anni 80.

La Russia è ora diventata attore primario e vero protagonista nel Mediterraneo Orientale. Sembra poterlo diventare rapidamente, grazie alla crisi libica, anche nel Mediterraneo Centrale.

Lo spiegamento di un’ampia forza militare in Siria, in nuove basi che danno tale spiegamento una proiezione stabile nel lungo termine, la vendita del sistema antiaereo S300 a Siria, Iran e Turchia, modificano l’equazione strategica e riducono le opzioni su cui potevano contare Israele, gli Stati Uniti e la NATO nel suo insieme.

Le opportunità colte da Putin sono particolarmente significative nel Mediterraneo perché corrispondono alle incertezze di cui soffre l’Alleanza Atlantica, dopo l’elezione del Presidente Trump; anche se gli esiti dei summit Nato a Bruxelles e a Helsinki e le esercitazioni aeronavali della Nato nel Mediterraneo hanno dimostrato che l’Alleanza resta solida e determinata.

Una seconda serie di opportunità è stata colta da Mosca con gli Accordi, o le intese informali conclusi con i partners mediterranei su Siria, terrorismo, petrolio, cooperazione economica e finanziaria. Accordi che sono stati pragmaticamente negoziati e conclusi dai Russi con paesi avversari o con amici di recente data, come Erdogan, Netanyahu, Rohani, Assad, Mohammed bin Salman, Al Sisi.
Lo spazio di manovra di Mosca si è ulteriormente ampliato con la controversia tra Ankara e Washington lo scorso agosto, e con quella tra UE e Stati Uniti sulle sanzioni contro l’Iran.

Quanto potrà beneficiare Putin da questi sviluppi? E’ da vedere.  Ma non è senza preoccupazione che Roma ha saputo che il 21 agosto scorso tra il Cancelliere Merkel e il Presidente Putin a Meselberg avrebbero discusso anche gli interessi che la Russia dovrebbe avere in Libia: evidentemente con riferimento al petrolio, dopo che lo scorso anno, dopo vari incontri tra Putin e il Generale Heftar, Rosfnet aveva concluso un importante accordo con i libici.

 

Grazie al petrolio libico, la Russia intende rafforzare la sua posizione dominante nel mercato degli idrocarburi e la sua capacità di pressione sull’Europa. Proprio mentre la Commissione Europea è impegnata a differenziare gli approvvigionamenti. Mosca non si limita alle risorse energetiche. Penserebbe anche a una base navale sulle coste libiche.

 

Valori osserva, e cita, come la Cina oggi si integra con il resto dell’Asia per evitare di essere, anche dal punto di vista strategico e militare, strozzata da un territorio desertico a Est e da un’area di difficile tenuta a Nord.

La strategia con cui la Cina vuole far uscire dalla povertà la popolazione rurale, attraverso l’integrazione con il resto dell’Asia, al fine di diventare il riferimento globalizzante anche per l’Europa e l’Africa.

 

E, ricordiamoci, la difesa da parte di Xi Jinping della globalizzazione vale anche per l’Ue, non solo per gli Usa di Trump. Anche l’Europa è una grande area di protezione commerciale, non dimentichiamolo.

E’ qui il caso di ricordare come il Governo polacco abbia bloccato la realizzazione di un interporto presso Lodz, punto di snodo della “Iniziativa” cinese, perché “minerebbe gli interessi nazionali”. Il sovranismo come oggi lo si denomina, è certamente un pericolo anche per la Cina di Xi Jinping.

 

Il Vicepresidente del Consiglio Di Maio si è detto sicuro che entro la fine dell’anno si chiuderà l’intesa per la partecipazione italiana alla Via della Seta disegnata da Xi. All’Expo di Shanghai sono andate 190 aziende italiane che hanno firmato contratti: Fincantieri che ha siglato la costituzione di un hub a Shangai, compresa una catena di fornitura, per costruire due navi da crociera da 1,6 miliardi di euro (con opzione per altre quattro); Leonardo che vende altri 15 elicotteri da soccorso; Ansaldo Energia che ha siglato un accordo per la fornitura di turbine a gas, e altro ancora.

 

Nel quadro delle crisi in atto e delle mutazioni geopolitiche nel Mediterraneo, la presenza di due nuovi attori globali come Russia e Cina non è stata ancora sufficientemente compresa. Lo scorso settembre ha avuto luogo per un’intera settimana una esercitazione aeronavale russa nel Mediterraneo Orientale, un settore che per decenni era stato considerato spazio esclusivo per l’Alleanza Atlantica e le Marine europee.

La Cina, d’altra parte, sta accrescendo la sua presenza militare nel Golfo di Aden e attraverso Suez nel quadro, ufficialmente, delle operazioni antipirateria, ma non solo con questa finalità.

Ci sono molti dubbi sui reali obiettivi cinesi e sulle acquisizioni di infrastrutture portuali “Dual Use”, in Grecia, Spagna, Italia, Turchia, Algeria.

La Marina cinese aveva già mostrato eccellenti capacità operative evacuando 35 mila connazionali dalla Libia nel 2011. Nel 2015 ha effettuato esercitazioni nel Mediterraneo insieme alla Marina russa e non è un mistero che anche Pechino starebbe pensando ad una base militare nel Mediterraneo.

La rapida espansione della presenza cinese nel Mediterraneo è un’importante fase della “One Belt One Road Initiative” e delle multiformi “Silk Roads”, progetti indefiniti che intendono attrarre nella sfera di influenza politica ed economica cinese il più ampio numero possibile di paesi.

Risorse naturali, “string of pearls”, infrastrutture commerciali militari, acquisizioni di reti strategiche di energia e di dati sono gli obiettivi primari di Pechino e di molte compagnie cinesi che intendono essere “investitori” nei nostri Paesi. I nostri mercati sono aperti ma senza che vi sia alcuna reciprocità o garanzia di protezione di dati e di proprietà intellettuale. Mentre le società cinesi beneficiano di fondi statali inaccessibili alle imprese europee.

Ciononostante la Cina ha successo nell’utilizzare i suoi “muscoli finanziari” per ottenere influenza politica, come dice l’Economist della scorsa settimana. E’ grazie a questa influenza che il Presidente Ceco Milos Zeman dice di volere che il proprio Paese diventi “l’inaffondabile portaerei della Cina” in Europa. E che, allo stesso modo, la Grecia ha bloccato una posizione critica dell’UE al Consiglio dei Diritti Umani all’ONU. E che, ancora, Ungheria e Grecia hanno impedito all’UE si sostenere la decisione del Tribunale del Diritto del Mare contraria alle pretese espansive cinesi nel Mar della Cina Meridionale.

E’ giunto il momento, in un ampio arco di crisi mediterranee che trova un’UE paralizzata dalla regola dell’unanimità ancora prevalente nei Consigli europei, che si deliberi a maggioranza qualificata – “qualified majority voting”- su questioni di grande importanza per l’Europa come la reciprocità negli investimenti diretti, i diritti umani e dei lavoratori, la trasparenza nelle transazioni in Europa e nei Paesi Mediterranei.

 

 

©2024 Giulio Terzi

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