Discorso “IL MEDIO ORIENTE, L’EUROPA E LA NOSTRA SICUREZZA”

     Convegno Cesi a Pescia , 14 novembre 2015

  IL MEDIO ORIENTE, L’EUROPA E LA NOSTRA SICUREZZA

I. L’Occidente, l’Europa e le sfide alla nostra sicurezza

Dall’11 settembre di quattordici anni fa il terrorismo globale rappresenta la principale sfida alla nostra sicurezza. La minaccia terroristica si intreccia con conflitti tra gli Stati e negli Stati; con guerre etniche e confessionali; con fondamentalismi e volontà di dominio regionale. In particolare è nuovamente divampato il contrasto all’interno dell’Islam tra la minoranza sciita guidata da una visione messianica e rivoluzionaria, e la vasta maggioranza degli Stati arabi che si oppongono ad una crescita dell’influenza iraniana.

Il successo dello Stato islamico in Siria in Iraq, con collegamenti che vanno dal Nord Africa all’Afghanistan è maturato in parallelo alla rilegittimazione della teocrazia iraniana da parte Occidentale con l’accordo nucleare. Mentre è ancora attiva l’onda d’urto delle Primavere Arabe e il loro impatto sul Mediterraneo e sul Medio Oriente, la concomitanza dell’Isis e della rilegittimazione iraniana pone ad americani ed europei la necessità di attuare una strategia che abbia precise ed omogenee finalità di stabilizzazione politica, di deterrenza militare, e di ricostruzione di una affidabile architettura di sicurezza nello spazio Mediterraneo ed Atlantico.

Per numero di vittime, distruzione di risorse e di ordine sociale l’impatto più drammatico è subito dal mondo musulmano. Sono milioni le vittime della violenza dall’Afghanistan all’Asia Minore, dall’Africa mediterranea e sub Sahariana, sino alle porte dell’Europa. Decine di milioni di migranti provenienti soprattutto da Paesi collassati da guerre civili  si accalcano nei corridoi marittimi e terrestri verso l’Europa Mediterranea e Balcanica; per la prima volta anche in imminenza dell’inverno. È un esodo di proporzioni bibliche. Il suo epicentro in Siria, Iraq, Libia si sta ampliando all’intero arco di crisi asiatico-mediterraneo.

 

II. Le rappresentazioni della realtà internazionale

In questi quattordici anni l‘“Occidente” – Europa e Stati Uniti – ha contrastato  terrorismo e  conflitti dandosi rappresentazioni spesso inesatte della realtà internazionale.

Queste rappresentazioni sono state a volta ispirate da ottimistiche agende di ”esportazione della democrazia”; altre volte dalla fiducia di poter avviare dialoghi  “trasformativi”, ad esempio con l’Islam politico; o dalla speranza di influire, attraverso dialogo e diplomazia, sull’evoluzione  di regimi  che reprimono i diritti umani e le libertà fondamentali, che fomentano  guerre civili, genocidi e pulizie etniche.

Passata la breve stagione della “Responsabilità di Proteggere” quale imperativo morale e politico della Comunità internazionale, un uso accorto e instancabile di dialogo e diplomazia basterebbe, secondo una certa visione del mondo, a trasformare anche i regimi più dispotici e violenti in “partners responsabili” sulla scena internazionale.

Da sette anni a questa parte ha prevalso in Occidente questa rappresentazione della realtà. Essa ha dato al grande pubblico la sensazione che il solo “soft power”, disgiunto dalla determinazione politica e dalla deterrenza militare, possa sradicare il terrorismo, ricostituire stabilità regionali, ridimensionare drasticamente fondamentalismi e disegni egemonici. Se Robert Kagan riscrivesse oggi il suo saggio del 2003 sulle differenze tra americani ed europei nella guerra a Saddam Hussein, egli dovrebbe probabilmente ammettere che non soltanto gli europei, ma anche buona parte degli americani provengono da Venere anziché da Marte.

La cartina di tornasole sta nell’esperienza dell’Amministrazione Obama. Un acceso dibattito si è sviluppato negli ultimi mesi sulla sua performance di politica estera. La questione coinvolge direttamente anche noi europei.

 

III. ”Soft power ” e “hard power”

Da un lato vi sono i sostenitori di un approccio basato sulla ricerca di alleanze, di partnerships multilaterali, di un “soft power “quale unica via percorribile e alternativa all’uso della forza.

Subentrato a un predecessore accusato di gravi errori specialmente in Iraq, Obama si è mostrato sin dall’inizio riluttante – esattamente come i Paesi Europei – ad assumere impegni militari nelle crisi che si stavano sviluppando. Cauto nell’evitare iniziative rischiose e passi falsi, il nuovo Presidente si è sempre detto  convinto che il tempo gioca non contro, ma a favore di un “ordine internazionale basato su principi liberali”, intrinsecamente “resilient ” e capace  di attrarre.

La fine della presenza militare occidentale in Afghanistan, sancita dal Vertice Atlantico di Chicago nel 2012, il disimpegno dall’Iraq l’anno seguente, la prudenza nell’indirizzare e sostenere le forze democratiche nelle transizioni delle “Primavere Arabe” hanno risposto ad una visione di dialogo anziché di confronto, di comprensione anziché di assertività, di enfasi sulla diplomazia anziché sulla forza .

Obama ha tracciato una strategia estera a tutto campo nei suoi più importanti discorsi di inizio Presidenza: al Cairo, a Praga e a Berlino. Essa abbracciava il disarmo nucleare, i rapporti Est-Ovest, la pace in Medio Oriente, il rapporto con l’Islam politico. La “mano tesa” del nuovo Presidente era rivolta, con una venatura di idealismo sempre presente nella diplomazia americana, a Paesi come l’Iran o la Corea del Nord. Anche se questi Paesi continuavano a dichiararsi nemici mortali del “Grande Satana”, la nuova Amministrazione democratica scommetteva che una loro uscita dall’isolamento li avrebbe trasformati profondamente. Il rilancio del loro sviluppo economico avrebbe  mitigato le dure repressioni interne, e avrebbe  fatto emergere  i vantaggi di incisive, urgenti riforme.

L’intero schieramento democratico in America come il “mainstream” dell’opinione pubblica in Europa ha condiviso l’impostazione di politica estera  che ha contraddistinto il primo mandato dell’Amministrazione Obama. E ancora oggi, al crepuscolo del secondo mandato, è considerevole il consenso che ottiene anche in Europa una linea basata sulla volontà di evitare –  ad ogni costo – non soltanto il confronto, ma anche l’utilizzo di strumenti di pressione economico- finanziaria, di azioni diplomatiche concertate e incisive,  di una comunicazione politica che ribalti l’impatto di disinformazioni e pregiudizi antioccidentali.

L’accordo nucleare iraniano, il coinvolgimento di Teheran nei negoziati sulla Siria, la “luce verde” a Germania e Francia a trattare con la Russia sull’Ucraina dopo l’annessione della Crimea, sarebbero altrettante dimostrazioni dei risultati conseguiti dalla moderazione di Washington e degli Europei. I pochi “punti fermi” delle sanzioni alla Russia, dell’eliminazione di Bin Laden, degli attacchi di droni, delle operazioni contro lo Stato Islamico sono accettate, sia pure con diffuse riserve, da quanti ritengono che gli strumenti del “soft power” debbano sempre e comunque prevalere  nella strategia occidentale, in antitesi a forme di  prevenzione delle crisi e di deterrenza nelle quali entri in conto anche il legittimo uso della forza.

D’altra parte la ripresa della crescita americana e il sostanziale successo delle politiche sociali e di piena occupazione di Obama starebbero a dimostrare che nella partita  per la leadership mondiale – o per lo meno per la condivisione di tale leadership – gli Stati Uniti continueranno ad essere il giocatore di punta sul terreno che condiziona tutti gli altri: quello dell’economia, in un mondo  tripolare guidato da America, Europa e Cina. Certo, anche altri Paesi, come la Russia, sono giganti militari e danno prova di grande assertività; ma restano medie potenze sul piano economico, caratterizzate da possibili instabilità. Le loro “entrate sceniche” nei nuovi equilibri globali sono destinate a ridimensionarsi nel medio-lungo periodo, se riforme e liberalizzazioni non consolideranno il loro sistema economico sociale. E’ auspicabile che ciò avvenga per rendere più concreta la prospettiva di un sistema cooperativo di sicurezza in Europa e nel Mediterraneo che comprenda l’Unione Europea e la Russia.

Tuttavia stride il divario tra le potenzialità politiche, economiche e militari dei Paesi Atlantici e l’incapacità di affermare adeguatamente l’interesse nazionale dell’America e dei Paesi europei nei confronti di Paesi che in misura crescente creano dei fatti compiuti attraverso un illegale e spregiudicato impiego della forza, esercitata sia direttamente sia attraverso i loro “proxies”. Le maggiori critiche si coagulano sul divario crescente tra risorse e volontà politica dell’Occidente.

Ci si chiede se non sia stata assai prematura l’affermazione di Obama nel maggio 2013 che al Qaeda era “ sulla via della sconfitta” e la guerra al terrore ultimata; o sostenere nel 2012 che l’Iraq era “meno violento, più democratico e prospero, e gli Stati Uniti più profondamente impegnati in tale Paese, di quanto non fosse avvenuto in qualsiasi altro momento della storia recente”.

Un Presidente americano, così come ogni Capo di Governo europeo, deve essere giudicato in base ad alcuni criteri fondamentali: la capacità di realizzare quanto ha promesso; di indebolire gli avversari del suo Paese ; di rafforzare gli amici; e di elaborare un concetto convincente dell’interesse nazionale che sia declinabile nella realtà globale.

Troppe le promesse disattese, sostengono i critici di Obama e dell’inadeguato ruolo Europeo: dal fallito “reset” con la Russia, alla inattuata chiusura di Guantanamo, dalla mancata riaffermazione del prestigio americano in tutto il Medio Oriente, all’inconcludente rilancio dei negoziati israelo-palestinesi. I risultati più importanti sono mancati.  Nè migliora  il quadro un accordo nucleare con l’Iran che presenta considerevoli incognite politiche e tecniche e consente a  Teheran  di accedere a cospicue risorse finanziarie per sostenere i suoi disegni di preminenza regionale  e per alimentare le formazioni militari e terroriste alleate di Teheran in Iraq, Libano, Gaza, Siria, Afghanistan.

Più in dettaglio ci si chiede: l’intesa tra Washington e Teheran sul nucleare, ora estesa anche alla partecipazione iraniana al tavolo delle trattative sulla Siria, non intende forse legittimare l’egemonia sciita sull’intera regione? Il colpo di freno all’azione punitiva contro le armi chimiche di Assad non è stata la contropartita pagata da Washington all’Iran per riattivare il negoziato nucleare con l’Iran? C’è una strategia nell’abbandonare i leaders sunniti che in Iraq nel 2007 avevano combattuto insieme agli Stati Uniti i Jihadisti iracheni nell’Anbar e a Ninive ? È davvero scontato che il “deal” nucleare avrà immediati effetti “trasformativi” sulla teocrazia iraniana?  Perché se non fosse così – e la settima, orribile strage dei mujaheddin iraniani a Camp Liberty il giorno stesso dell’ingresso dell’Iran nel negoziato di Vienna sulla Siria lascia ben pochi dubbi – l’azione  di “containment” nei confronti dell’Iran, da parte di americani ed europei, insieme ai Paesi del Golfo, alla Turchia e all’Egitto dovrebbe essere ben più determinata e visibile.

La dottrina obamiana del “ nation building at home”, di volersi concentrare sulla politica interna più che su quella estera, della non interferenza in Paesi dove stanno avvenendo genocidi e pulizie etniche a meno che sia sempre l’Onu a decidere, pesa assai negativamente – sostengono i critici – sulle responsabilità e sul ruolo globale dell’America. Di riflesso, tutto ciò pregiudica ancor più l’Europa dato che la sua politica estera, di sicurezza e di difesa appare ancora embrionale e prevalentemente  declaratoria.

 

IV. Il senso di un vuoto per l’Occidente

Si è creato un vuoto nella volontà occidentale di prevenire e  affrontare le crisi con la necessaria unità di visione politica. Un ampio spazio, per la prima volta nel secondo dopoguerra, è stato lasciato libero dalla immanente, spesso problematica, e tuttavia  stabilizzante  influenza occidentale.  Vi si sono potuti inserire agevolmente altri attori come lo Stato Islamico.

Un nuovo revisionismo muove Paesi come Iran, Russia e Cina che contestano il patrimonio di valori sociali e umani che ha sancito il progresso della legalità internazionale negli ultimi cinquant’anni.

L’annessione russa della Crimea e la destabilizzazione dell’Ucraina ha smantellato l’architettura europea di sicurezza. Essa era stata basata sul rifiuto assoluto dell’uso della forza nel continente europeo.  La violazione russa dello Statuto delle Nazioni Unite è stata sanzionata in modo quasi unanime dall’Assemblea Generale. Ma il danno per ora è irreversibile.

La Cina sta cercando di delimitare unilateralmente un suo nuovo mare interno, appropriandosi di isolotti semisommersi a grandissima distanza dalle sue coste, in contrasto con le rivendicazioni di altri Stati della regione  e con la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del mare.

La Siria è diventata un campo di battaglia dove Iran e Russia  sono schierati senza alcun mandato dell’Onu dalla parte degli sciiti contro i sunniti, senza troppo preoccuparsi di colpire, con gravissimi “danni collaterali” e vittime tra la popolazione, comunità sunnite che poco o nulla a che fare hanno con l’Isis.

Diventa moneta corrente, il ricorso alla forza, lo spregio dei meccanismi legali per la risoluzione delle controversie, la creazione di stati di fatto estranei a qualsiasi iniziativa diplomatica.

In diversi casi l’Occidente si è fatto male da solo. La sua credibilità e influenza   sono state danneggiate. Esempi significativi sono stati:

 

–   le “linee rosse” poste e poi ritrattate a metà 2013 sulle armi chimiche in Siria e l’ ordine sparso tra europei circa l’eventuale attacco americano alla Siria;

–   il surreale zigzagare nell’appoggio alla Coalizione dell’Opposizione Siriana, e alla Free Syrian Army quando per tutto il 2012 e ancora nei primi mesi del 2013 esistevano forze sunnite anti Assad che potevano neutralizzare sul nascere lo Stato Islamico;

–   l’accondiscendenza nei confronti dei Fratelli Musulmani di Morsi ad inizio 2012, seguita alla loro emarginazione da parte di Fattah al –Sisi ;

–   l’abbandono nel quale è stata lasciata la Libia dopo la caduta di Gheddafi, per tutto il percorso costituzionale avviato con le elezioni politiche dell’estate 2012. I successi dei Fratelli Musulmani e dei fondamentalisti nell’intero Nordafrica, inquinavano dalla fine del 2012 anche il contesto libico;

–   il fallimento, accompagnato da rivelazioni imbarazzanti, dell’iniziativa per un Governo di unità nazionale lanciata dall’Inviato speciale delle Nazioni Unite, sostenuto quale unica carta sia  dall’UE che dall’Italia.

 

Siamo entrati in un’era di “disordine globale”. Le certezze devono essere faticosamente ricostruite, anzitutto quella della legalità internazionale.

La sottile distinzione tra centro e periferia nelle priorità della sicurezza è svanita da tempo.

L’elezione presidenziale americana del 2016 riproporrà quindi – e su questo critici e sostenitori di Obama  concordano – l’alternativa tra una politica estera e di sicurezza dell’America in versione “obamiana”, e una visione “espansiva”. L’Europa deve prepararsi a una ridefinizione delle strategie dell’Occidente perché i dati dell’equazione globale stanno mutando rapidamente: sicurezza, migrazioni, conflittualità etnico-religiose, terrorismo, sfide globali a cominciare da quella climatica, richiedono una profonda trasformazione delle politiche nazionali e il rafforzamento dei valori atlantici.

 

V. I limiti della politica estera, di sicurezza e di Difesa dell’Unione Europea

Nelle regioni che più influiscono sulla sicurezza dell’Europa e sulla nostra coesione politica e sociale la politica estera, di sicurezza e di difesa dell’Europa è esposta a critiche simili a quelle che sono rivolte a Obama. Per l’Unione Europea e per il nostro Paese vi sono delle aggravanti.

 

a) La prima riguarda la rinazionalizzazione delle politiche estere.

Appena nominata l’Alto Rappresentante Federica Mogherini ha constatato pubblicamente che la politica estera resta essenziale dominio dei singoli Stati membri. Constatazione veritiera; ma deludente dopo tutti gli sforzi riposti dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2010, per imprimere un netto salto di qualità nella politica estera e di sicurezza dell’Unione Europea. Dopotutto il ruolo affidato all’Alto Rappresentante concentra competenze e poteri di coordinamento che dovrebbero farne l’elemento di maggior potere nell’intera Governance europea. L’Alto Rappresentante dovrebbe essere la voce più autorevole su tutte le materie che vanno dalla politica estera e di sicurezza, alla Difesa, dallo sviluppo alla dimensione sociale, dai partenariati alle migrazioni e agli affari interni.

Unificazione del ruolo, centralità nella Governance dell’UE, imponente rete del Servizio per l’Azione Esterna, ben sedici “Missioni PESC/PSDC “ [Politica Estera e di Sicurezza Comune/Politica di Sicurezza e Difesa Comune] dovrebbero essere più che sufficienti affinché l’Unione esprima una posizione forte e chiara su tutte le principali questioni dell’agenda internazionale. Sono stati fatti progressi, i Governi sono in contatto continuo, i Ministri europei trascorrono insieme buona parte del loro tempo. Eppure c’è una lunga strada  da percorrere: nessuno Stato membro nutre ancora nei confronti dell’Unione e delle Istituzioni di Bruxelles un grado di fiducia tale da delegare in toto all’Unione le responsabilità vitali della sicurezza e della Difesa nazionale.

 

b) Il secondo “handicap” per l’Unione deriva dalla tendenza a protagonismi, agende politiche, fughe in avanti suggerite da interessi particolari, politici, economici e ancora una volta, soprattutto, di sicurezza. Il Mediterraneo e il Medio Oriente rappresentano da cinque anni la maggior criticità per la sicurezza dell’Europa, ed ora anche per il suo tessuto economico-sociale in ragione del fenomeno migratorio.

Almeno altri tre milioni di migranti verso l’Europa sono previsti dalla Commissione entro il 2016. Una stima riduttiva se si considerano le valutazioni del World Food Programme (WFP) ad esempio, sui rifugiati in Giordania: una buona percentuale del milione di siriani  ospitati temporaneamente da Amman sarebbe pronta a muoversi verso l’Europa. “Vi è l’impressione, ha detto recentemente un portavoce del WFP, che l’Europa sia più disposta all’accoglienza di quanto sia mai stata in passato. A questo si aggiunge la totale assenza di speranza ed una diminuita assistenza nei campi UNHCR”. I leaders europei stanno negoziando con più di trenta paesi africani pacchetti di aiuto e di riforme per gestire la migrazione dall’Africa.

Ma le “agende nazionali” continuano a limitare il ruolo dell’Unione. Mentre gli ordini del giorno dei Consigli Europei davano grande urgenza sin dalle prime settimane del 2011 alla risposta che l’Unione doveva dare alle “Primavere Arabe”, e poi ai rivolgimenti  in Tunisia, Egitto, Libia, Siria, le risorse finanziarie e le iniziative politiche europee destinate al Mediterraneo e al Medio Oriente venivano continuamente rinviate o nella migliore delle ipotesi assegnate col contagocce. Nonostante i loro accorati appelli i Paesi mediterranei  non erano ascoltati  da una Mitteleuropa concentrata sull’austerità  dell’Eurozona. L’attenzione di Bruxelles e Berlino continuava a essere soprattutto rivolta al Partenariato Orientale, con le conseguenze che sappiamo.

C’è voluta l’inattesa, e alquanto prevedibile, emergenza migratoria attraverso i Balcani, e il rischio di un sempre più drammatico esodo dalla Siria per far evolvere radicalmente l’atteggiamento di Berlino. Nel giro di poche ore il Cancelliere Merkel ha cambiato vistosamente una linea  seguita per anni: si è recata a Istanbul per assicurare alla Turchia un incondizionato sostegno politico  e economico che ha giovato al successo elettorale di Erdogan. E gli ha promesso l’apertura di nuovi cruciali capitoli nel negoziato di adesione all’UE–sinora bloccato da Berlino e Parigi- nonché un aiuto finanziario sei volte superiore a quello proposto inizialmente dalla Commissione per i campi profughi della Turchia.

 

c) Un terzo aspetto riguarda la tendenza delle Istituzioni brussellesi a preannunciare obiettivi fuori portata, utili al più ad attrarre facili consensi: ad esempio in campo arabo-palestinese, senza  che l’Unione  sappia tuttavia dimostrare una vera leadership nel negoziato con Israele, e nonostante i cospicui stanziamenti destinati all’Autorità Palestinese. Sarebbe invece auspicabile un marcato impegno politico unito a concrete iniziative europee che riducano le  crescenti tensioni tra l’Unione  Europea e Israele, e tra palestinesi e israeliani.

Nelle ultime settimane si sono ascoltate dichiarazioni ambiziose sul “rilancio da parte dell’Unione del processo di pace in Medio Oriente”. Federica Mogherini si è mostrata ottimista sui colloqui avuti con Kerry e Lavrov, per un “nuovo inizio nell’attività del Quartetto”, e si è prodigata in inviti alla moderazione  e alle “reazioni proporzionate” che gli israeliani dovrebbero assicurare nell’”Intifada dei coltelli”.  Inviti che hanno suscitato reazioni dure da parte di Gerusalemme ispessendo ancor più le incomprensioni alimentate tra l’Unione Europea e Israele dalla campagna di boicottaggio “BDS (Boycott, Divest, Sanction) “ diffusa in diversi ambienti europei.

Per converso, delle sedici Missioni PESC/PSDC solo due – per la verità una esiste solo sulla carta, l’altra riguarda l’ assistenza giudiziaria a Ramallah – sono state inviate dall’Europa nell’intero Medio Oriente.

Per la Libia si è alla fine deciso di avviare l’operazione navale di salvataggio dei migranti e di limitato contrasto ai trafficanti dopo aver atteso per sei mesi l’autorizzazione dell’Onu. Un’attesa ingiustificata se la risoluzione 2240 del CdS è stata giudicata dagli esperti irrilevante sotto il profilo giuridico perché meramente compilatoria di norme già ben delineate  dall’ordinamento internazionale. Inoltre, per sostenere le autorità libiche nel controllo delle frontiere in mano a milizie armate e a entità terroristiche  come lo Stato Islamico, la missione europea Eubam  è stata formata da sole diciassette persone, confinate per oltre un anno  a Tunisi.

 

d)   In un quadro problematico,  lo sforzo di un Paese come il nostro dovrebbe – io credo- far leva su tutti gli strumenti che esistono nel Trattato di Lisbona. Devono essere finalmente attivate le “cooperazioni rafforzate” per la politica estera e di sicurezza tra nuclei anche ristretti di Paesi, come quelli Mediterranei, che possono essere autorizzati ai sensi del Trattato di Lisbona a assumere tra loro iniziative mirate alla stabilizzazione della Libia. L’Alto Rappresentante ha piena autorità per portare aventi tale percorso.

Roma è stata ripetutamente sollecitata da Washington e da altri partners a farsi capofila di una “coalizione di volonterosi” che sostengano sul piano diplomatico, e al momento opportuno anche per la sicurezza, la ricostituzione dello Stato Libico. Abbiamo purtroppo voluto rimanere in panchina, astenendoci perfino dal designare un nostro Inviato speciale di alto profilo ed esperienza politica, che entri con decisione nelle numerose questioni aperte dalla grave crisi che continua a dilagare a sud del nostro mare.

La deludente performance dell’Inviato Onu Bernardino Leon, che avrebbe negoziato con gli Emirati Arabi un lucroso incarico esponendosi così alle critiche di diverse fazioni libiche proprio nella fase decisiva del negoziato per il Governo di Unità nazionale, dimostra come il nostro interesse alla soluzione sulla Libia non dovrebbe permettere di restare nelle mani di nessuno. Se avessimo avuto un Inviato nazionale per la Libia di adeguato spessore e riconosciuta autorevolezza politica, un esito infausto anche per le Nazioni Unite poteva forse essere evitato. Non ha destato quindi eccessiva sorpresa che il Ministro italiano restasse escluso dalla riunione ristretta sulla Libia convocata a Parigi da Laurent Fabius, alla sola presenza dei Ministri degli Esteri tedesco (pur essendo la Germania sempre stata defilata sulla Libia) e Britannico. Né è dato sapere se Federica Mogherini abbia insistito o meno per una partecipazione dell’Italia all’incontro trilaterale di Parigi, tanto più che l’Alto Rappresentante avrebbe potuto  condizionare la sua partecipazione a quella di Gentiloni.

Altro ambito previsto dal Trattato di Lisbona riguarda “le cooperazioni permanenti strutturate” per la Difesa. Si dovrebbe mirare a intese con Paesi europei che condividono i nostri stessi interessi nazionali, in particolare nella lotta al terrorismo e nella gestione dei flussi migratori. Anche in tale prospettiva si dovrebbero proporre a Bruxelles personalità di riconosciuta esperienza e autorevolezza internazionale, lasciando perdere le piccolezze della “politique politicienne”.

 

VI. Siria e Iraq: il Medio Oriente dopo l’accordo nucleare con l’Iran.

Il Medio Oriente è oggi più che mai teatro di “guerre per procura” (Proxy wars). La caduta del Muro di Berlino sembrava aver allontanato quegli spettri dai confini esterni dell’Europa. La fine di “giochi a somma zero” tra due grandi aggregazioni , di democrazie liberali da un lato, e  di socialismo reale dall’altro, avrebbe dovuto porre termine a conflittualità  generate dalla continua ricerca di ambiti di influenza. Il collasso dei regimi esistenti in Egitto, Tunisia, Iraq, Siria, Yemen, Libia, veniva determinato soprattutto  da forze endogene come le “Primavere Arabe”, non da cause esterne. C’era prima stata, nel 2009, la sfida alla teocrazia iraniana da parte dell’Onda verde dopo la fraudolenta rielezione di Ahmadinejad.

La guerra civile in Siria, l’instabilità in Iraq, l’emergere dello Stato Islamico, l’entrata in un gioco sempre più intrusivo di Iran e Russia hanno  trasformato l’intera regione e rilanciato prepotentemente le “ proxy wars”.

La novità rispetto alle fasi precedenti è che negli ultimi sette anni di Presidenza Obama, e in misura crescente dal 2011, le guerre per procura si sono alimentate soprattutto per opera di attori regionali e globali diversi dall’Occidente. Durante la Guerra fredda, e nella stagione seguita all’11 Settembre, era stato ben diverso. Nell’”era Obama” Americani ed Europei hanno evitato di farsi coinvolgere. Lohanno fatto nella immensa tragedia siriana; nei rivolgimenti in Egitto, Tunisia, Yemen; nella rivolta di milioni di giovani contro la teocrazia iraniana. Sono però entrati però direttamente nella vicenda libica con l’azione militare contro Gheddafi, con l’improvvisazione e le conseguenze che sappiamo.

Diversamente è avvenuto per Iran, Turchia, Paesi del Golfo, in particolare Qatar, emirati Arabi e Arabia Saudita, nonché per Egitto e Iraq. Se questi Paesi sono stati e continuano a essere i principali protagonisti regionali, nessun altro è parso immune dal contagio dei conflitti degli ultimi anni. La Giordania e il Libano stanno subendo gravissime conseguenze dalla guerra civile siriana. L’Algeria, la Tunisia, il Chad, il Niger, il Mali e la stessa Nigeria soffrono lo “spill-over” della dissoluzione dello Stato libico, la radicalizzazione islamista, e gli enormi flussi migratori. Anche questi Paesi cercano di rispondere a crisi che coinvolgono i loro interessi nazionali e la loro stessa stabilita’ interna.

A livello globale, non vi è peraltro alcun dubbio che la vera “new entry” sull’intero scacchiere Mediterraneo e Medio Orientale sia la Russia. La sua  alleanza con l’Iran è per ora, forse, solamente tattica. Ma appare solida al punto di creare un comune comando militare in Iraq per le operazioni in Siria e nell’Iraq sunnita, con la motivazione ufficiale della “guerra al terrorismo” dello Stato Islamico. In realtà si tratta di molto di più.

Il considerevole spiegamento militare russo nella base navale di Tartous e quella appositamente creata a Latakia hanno confermato capacità strategiche e logistiche di uno strumento militare completamente riformato da Putin dal 2008. La Russia dispone attualmente di grandi capacità di proiezione  a considerevole distanza dai propri confini; di sistemi di difesa aerea e di attacco di precisione al suolo trasferibili in teatri operativi esterni alla Federazione russa, come mai era avvenuto dalla dissoluzione del Patto di Varsavia; e di una efficientissima struttura di intelligence, e di  disinformazione derivata anche dalla Guerra Fredda.

L’incondizionato sostegno, almeno per ora, al regime siriano, e l’alleanza con l’Iran nella lotta tra sciiti e sunniti modifica il posizionamento politico-militare della Russia  nel Mediterraneo e nel Medio Oriente.Esso si combina con l’obiettivo perseguito dalla destabilizzazione in Ucraina e dal controllo sulle forze filo-russe del Donbass e della Crimea.

Siamo dinanzi a un profondo rimescolamento di carte che coinvolge tanto la dichiarata guerra allo Stato islamico, quanto il rapporto tra Russia e Nato.

E’ questa seconda faccia della medaglia a dover essere valutata in tutta la sua serietà; la guerra all’Isis e’ condotta dalla Russia con una priorità sbilanciata: prevale il fine della permanenza di Assad al potere e dell’eliminazione definitiva  di tutte le forze moderate che si oppongono al regime.

L’Alleanza Atlantica ha iniziato finalmente a prendere atto della nuova realtà. Dal 23 ottobre al 6 novembre scorso ha lanciato un’operazione di notevole significato politico e militare : “Trident Junction”.

“Vogliamo mandare un messaggio molto chiaro a ogni aggressore potenziale, hanno detto i più alti comandi Nato; ogni tentativo di violare la sovranità di un Paese membro della Nato avrà come conseguenza una decisa azione militare di tutti i partners”. “Trident Junction”  ha risposto a un’esigenza tecnica, quella di verificare l’interoperabilità e la prontezza operativa delle trenta Forze Armate che hanno partecipato; e politica, di dimostrare che si possiede una considerevole capacità  militare e si è disposti a utilizzarla.

Per il nostro Paese si tratta di uscire da ambiguità e disattenzioni che gli ultimi Governi hanno avuto. L’obiettivo di rifondare con la Russia un’architettura di sicurezza in Europa che comprenda il Mediterraneo appare ineludibile. Se la storia dei grandi negoziati sulla sicurezza europea e sulle armi strategiche e convenzionali ci ha insegnato qualcosa, si deve riconoscere che i risultati sono sempre stati conseguiti sulla base di capacità militari e volontà politiche ragionevolmente bilanciate. E’ soltanto la chiarezza sui valori fondamentali della sovranità e dell’interesse nazionale che ha prodotto l’Atto finale di Helsinki, la Carta sulla Sicurezza europea,  i Trattati Start, INF, CFE, e molte altre intese. Gli Stati Uniti,  l’Europa e la Russia devono ritrovare il sentiero che da alcuni anni è stato smarrito.

Per la Siria è stato giustamente scritto che “ La guerra civile ha creato l’ambiente perfetto nel quale il jihadismo potesse riguadagnare trazione. Lo Stato Islamico è sorto in parte dalle rovine di una mai completamente sconfitta insorgenza irachena ed ha iniziato a prosperare sotto il malgoverno settario di al-Maliki. Ha prosperato nella frammentaria, multipolare insorgenza popolata da innumerevoli gruppi affini ideologicamente a quelli finanziati da Turchia e Paesi del Golfo… Lo Stato Islamico ha anche, ironicamente, tratto beneficio dal successo di Obama contro al Qaeda; l’uccisione di Bin Laden ha creato un vacuum al centro e sollecitato sfide dalla periferia… Lo Stato Islamico deriva la sua forza dalla debolezza degli avversari e dalla sua abilità nel capitalizzare gli insuccessi delle rivolte Arabe… in Iraq, in Siria” ma anche in Egitto, Libia, attingendo alla stessa narrativa e alle reti che erano state utilizzate da al Qaeda.

L’avvio dei negoziati di Vienna con il coinvolgimento dell’Iran è partito da un minimo comune denominatore: rispetto dell’unità del Paese, integrità delle sue Istituzioni, cessate il fuoco, rilancio dei negoziati tra regime e opposizione, nuove elezioni. Una profonda spaccatura si è invece confermata tra iraniani, sauditi ed alcuni occidentali sulla pre-condizione della rimozione di Assad. Diversi delegati hanno lasciato filtrare alla stampa il timore che “gli americani siano disposti a conceder tutto”, e che vogliano negoziare per convincere gli altri che un accordo sia possibile.  Atteggiamento che ha guidato, secondo i critici, la diplomazia americana nel negoziato nucleare con l’Iran. I russi hanno eluso le critiche sui bombardamenti contro le forze dell’opposizione moderata e la “corresponsabilità” di Mosca nelle efferatezze del regime siriano.

La Francia ha per l’ennesima volta annunciato Risoluzioni al CdS contro l’utilizzo delle armi di distruzione di massa da parte di Assad, sollevando subito le obiezioni russe.

Ancora una volta, è emerso il nodo dell’intensità del rapporto tra Mosca e Teheran.  Una questione essenziale nella riconfigurazione degli assetti Medio Orientali. L’ombra lunga del regime iraniano si estende sull’Iraq. Quattordici mesi dopo la nomina, il Primo Ministro Haider al-Abadi ha cercato di dare al mondo il senso di una ritrovata credibilità di Bagdad nella lotta alla corruzione, nella ricomposizione delle Forze Armate e nella ripresa di controllo su Musul e le altre regioni cadute sotto lo Stato islamico. Nonostante il suo tentativo di liquidare politicamente al-Maliki, che aveva governato il Paese esclusivamente  come “longa manus” iraniana, al-Abadi non ha potuto dimostrare niente di diverso nel rapporto con le tribù sunnite e ha continuato a mostrarsi cedevole nei confronti della crescente presenza militare iraniana sul terreno e di una evidente radicalizzazione settaria delle forze di sicurezza in Iraq.

Da parte Occidentale non si è sinora riusciti a far evolvere l’atteggiamento iracheno in una direzione più coerente con i dettami costituzionali del 2005 che restano inattuati per ciò che riguarda le garanzie di coinvolgimento della ampia componente sunnita, curda, e cristiana nel Paese.

La tensione internazionale si è concentrata in queste ultime settimane sul rinnovato vigore degli “hardliners” di Teheran. In un incontro alla presenza dell’Ayatollah Khamenei, il Presidente Rouhani è stato platealmente contestato da componenti della Guardia Rivoluzionaria Iraniana, del Parlamento, della Magistratura e dei media senza che la Guida Suprema lo impedisse ; migliaia di dimostranti per le strade di Teheran hanno celebrato l’anniversario dell’occupazione dell’Ambasciata americana con slogan e manifesti antioccidentali. Alcuni arresti di giornalisti da parte della Guardia rivoluzionaria hanno completato il quadro.

Queste tensioni possono in una certa misura essere inquadrate nella campagna che precede le elezioni parlamentari del 26 febbraio e quelle, ancora più importanti, all’Assemblea degli Esperti, cruciali per la designazione del successore di Khamenei. Appare tuttavia evidente che l’attuazione dell’Accordo nucleare, e i margini che esso consente soprattutto per le modalità estremamente complesse nelle ispezioni e nella cancellazione delle misure sanzionatorie contro l’Iran, rappresenta un terreno di scontro per un apparato di potere interno che controlla una quota molto importante dell’economia iraniana oltre che la sicurezza del Paese. La situazione preoccupa soprattutto Israele. Per questo motivo Netanyahu ha chiesto a Obama, nella sua visita a Washington di lunedì 9, di creare un Comitato congiunto tra Israele e Stati Uniti  che monitori passo passo l’attuazione dell’Accordo nucleare e la rimozione delle sanzioni. Quasi al termine del suo mandato, il Presidente Obama ha voluto sgomberare il campo da equivoci nel rapporto con Israele: “il forte disaccordo sulla questione iraniana non e’ un segreto, egli ha detto al suo ospite; ma non c’e’ disaccordo sulla necessita’ di assicurare che l’Iran non abbia l’arma nucleare, e non siamo in alcun disaccordo nel contrastare le attivita destabilizzanti dell’Iran”. Ne deriveranno accresciuti stanziamenti per la sicurezza di Israele. In un’era di grande instabilita’ del Medio Oriente, le Cancellerie europee avrebbero interesse a prendere nota. A cominciare dalla visita del Presidente Rouhani a Roma.

In conclusione l’accresciuta instabilità determinatasi nell’intera Area Medio Orientale con l’impulso dato all’Iran dalla crisi irachena, siriana, dall’Accordo nucleare e dalla “new entry” della Russia, richiede un forte salto di qualità nella determinazione dell’Occidente: nella sua coesione politica; nella collaborazione con Paesi che possono contribuire in modo significativo alla stabilità e alla sicurezza regionale; nella condivisione con Europa e Stati Uniti di interessi nazionali convergenti da parte degli alleati più significativi.

Si tratta prioritariamente di Israele, Turchia, Egitto, Arabia Saudita e dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo.

 

©2024 Giulio Terzi

Log in with your credentials

pergot your details?