Discorso ” LA DIPLOMAZIA ITALIANA E LA SUA EVOLUZIONE “

Forlì, 23 Novembre 2015

Nel suo saggio “La Pace Perpetua” Immanuel Kant sostiene che una pace perpetua sarà alla fine conseguita solo in due modi: grazie alla saggezza umana, o perché conflitti e catastrofi assumeranno una tale magnitudine da non lasciare all’umanità altra scelta. Citando Kant, Henry Kissinger conclude il suo fondamentale lavoro “On China” affermando che l’umanità si trova  a questo bivio.

Nel contesto attuale i dati dell’equazione di  politica estera e di sicurezza mutano con accelerazioni istantanee. Per contro, prassi e strumenti della diplomazia riflettono, in buona parte parte, le realta’ di fine Novecento. Sono poco adatti ad affrontare le asimmetrie del terrorismo; a ricomporre le destabilizzazioni prodotte dall’Islam fondamentalista Sunnita del Daesh , o  dagli obiettivi  egemonici dell’Iran sciita.

In questo “ordine mondiale” ha sinora operato una diplomazia funzionale ai rapporti tra Stati , rispettosa di tutte le prerogative Westfaliane della sovranita’. Ma e’ tale “ordine” a essere da tempo  esposto all’erosione  “revisionista” di  Paesi come i BRICS, nella finanza e nel commercio internazionale; a essere scardinato dal ricorso illegale alla forza, e alla politica del fatto compiuto persino nel cuore dell’Europa. Trattati che rappresentavano pilastri della sicurezza internazionale, realizzati da grandi protagonisti della diplomazia mondiale, sono caduti vittima di politiche nazionaliste utili a leaders che ancora nel Terzo millennio vedono nelle avventure militari una efficace diversione da problemi interni.

Pur lontano dall’aver potuto intravvedere le “crisi asimmetriche” causate dal fondamentalismo islamico Henry Kissinger aveva colto sin dagli anni settanta i prodromi di una profonda instabilità. E sottolineava che tra i due assetti , quello relativamente stabile uscito dal Congresso di Vienna nel 1815, e quelli da lui definiti “estremamente instabili” del Trattato di Versailles e della Seconda Guerra Mondiale  sarebbe dovuto emergere un “ordine mondiale” garante della sicurezza per i Paesi partecipanti, percepito dalle opinioni pubbliche come sostanzialmente giusto ed equo per tutti.

Sull’equilibrio tra gli Stati e sulle diverse forme di concerto tra le Nazioni si sono impegnate intere generazioni di uomini di Governo, di Diplomatici e di studiosi che hanno ispirato il pensiero di politica estera del mondo occidentale . Primi tra molti, sono stati i fautori della corrente “realista” : George Kennan, propugnatore di un paziente ma fermo containment dell’Urss perche’ Mosca che non avrebbe mai rinunciato a lottare contro le istituzioni libere dell’Occidente;  Hans Morgenthau che individuava “sei principi” basati su leggi oggettive della politica,  sull’interesse nazionale in termini di potere, e su principi morali filtrati da circostanze di tempo e di luogo; Kenneth Waltz , parte di un pensiero neorealista che metteva in guardia dai contraccolpi di politiche egemoniche e insisteva sul ruolo della collaborazione e delle alleanze.

Il Nation-State e’ destinato, per questa vasta corrente di pensiero, a rimanere il perno delle relazioni internazionali nel XXI secolo.

Una concezione valoriale delle relazioni internazionali, che integra senza necessariamente contraddire quella realista, si è per altro verso rafforzata grazie al multilateralismo, alla prodigiosa diffusione delle Organizzazioni internazionali, e alle forme di integrazione economica e politica, prima fra tutte l’Unione europea. E’ soprattutto nella cultura politica europea,e italiana in particolare, che si e’ formata la visione federalista. Essa ha indubbiamente ispirato il percorso verso un’Unione sempre piu’ coesa, nella quale l’integrazione prima economica, quindi politica, si traduca in significativi trasferimenti alle Istituzioni comunitarie di potesta’ nazionali, monetarie, fiscali, di politica estera , sicurezza e Difesa.

La crisi dell’Euro ha smorzato le speranze. Gli ultimi dati di eurobarometro segnano per l’Italia un sostegno alla moneta unica ben al disotto del 50%; l’indice di gradimento piu’ basso in tutta l’eurozona sta da noi. Un fatto incontrovertibile riguarda la rinazionalizzazione della politica  estera, di sicurezza e Difesa. La risposta all’Isis, invocata ai sensi dell’art.42,7 del Trattato, puo’ di fatto avvenire solo nella forma di una “coalizione di volonterosi”- di natura intergovernativa  e non, almeno per ora, “istituzionalmente europea” – anziche’ nell’invio di contingenti integrati europei come i “battlegroups” che ormai non esistono forse neanche piu’ sulla carta. Occorre ricordare che sono state decisioni di singoli Stati membri all’origine delle operazioni francesi in Libia e in Mali? O i bombardamenti “in ordine sparso” in Siria? O misure sull’immigrazione contradditorie tra diversi Stati membri? Le trattative sull’Ucraina sono state gestite interamente da Berlino e Parigi. E il precipitoso cambiamento di linea sulla Turchia ,attuato dalla Germania e’ avvenuto senza alcuna vera concertazione tra i 28.

L’interesse nazionale viene avvertito da ciascuno degli Stati membri quale necessario presupposto per ogni decisione dell’Unione. Se questa condizione riguarda la realta’ europea, pur caratterizzata da una straordinaria esperienza di condivisione identitaria, sarebbe utopico pensare che stia diffondendosi in altri continenti piu’ che in Europa l’impulso a cedere Sovranita’ statuali ad organismi sovrannazionali. E’ una constatazione semplice. Essa comporta, a mio parere, un impegno accresciuto nel rafforzare le regole alle quali devono attenersi tutti i membri della Comunita’ internazionale.

Ancora per molto tempo gli Stati nazionali continueranno a essere i principali protagonisti. Lo saranno probabilmente in forma diversa. Nell’economia globalizzata si calcola che piu’ del 50% del prodotto lordo mondiale sia realizzato da imprese transnazionali. Decisioni rilevanti per le politiche nazionali si spostano fuori dai confini. Conta in misura crescente nei rapporti tra Stati l’evoluzione multietnica delle loro societa’.Essa alimenta rapporti umani , culturali, religiosi, economici tra gli Stati. Restano loro i principali, anche se non esclusivi, protagonisti delle relazioni internazionali.

Progressi estremamente significativi durante la seconda meta’ del XX secolo sono stati conseguiti  grazie all’affermazione del principio di legalità .Il sistema delle Nazioni Unite ha assicurato un maggior radicamento dello Stato di Diritto, dei diritti umani, delle libertà fondamentali, dei criteri che devono guidare lo sviluppo sostenibile e  la risposta ai cambiamenti climatici.

La diplomazia multilaterale e’ stata per il nostro Paese, e continuera’ sempre piu ad essere, un terreno di costruttiva collaborazione e al tempo stesso di dura competizione e di confronto. L’interesse nazionale, essenza della funzione diplomatica, si misura nella capacita’ di rispondere a situazioni di crisi e a sfide globali che l’Italia deve affrontare. Nella diplomazia multilaterale , cosi’ come nella vita politica, arriva prima o poi il momento di doversi esprimere con un voto, accade di dover tessere iniziative con altri Paesi che possono ottenere l’approvazione di alcuni , e le riserve o la netta ostilita’ di altri.

La politica estera, al pari di quella di sicurezza  e di difesa che ha spesso rappresentato una modesta priorita’ per il Governo, puo’ affermare l’interesse nazionale solo se esprime orientamenti e valori precisi. Siamo credibili all’estero se dimostriamo di voler realmente applicare nel nostro Paese i principi di legalita’ che invochiamo per altri. E nostro preciso interesse promuvere  un compiuto Stato di diritto, una societa’ lbera dalla gravissima piaga della corruzione , una giustizia efficiente, un rispetto puntuale dei diritti e delle liberta’ individuali e collettive. In questo senso l’opera del diplomatico e di chi si occupa di politica estera deve essere attivamente coinvolta e partecipe nel processo, ineludibile, di una profonda trasformazione del nostro Paese.

La sfida dello Stato di diritto e della legalita’ condensa tutte le altre. Riassume l’interesse nazionale di un Paese con orizzonti globali come il nostro. Deve caratterizzare gli obiettivi della nostra politica etera e gli strumenti, le risorse, la formazione , la mentalita’ stessa della diplomazia italiana. Quando si verifichino “cali di tensione “ o addirittura violazioni della legalita’ in ragione di asserite, ma fuorvianti, “ragioni di stato” , come alcuni casi recenti hanno dimostrato, la nostra credibilita’ internazionale va in frantumi. Condivido quanto ha scritto quella che considero la migliore testa pensante tra gli Ambasciatori attualmente in servizio: l’Italia ha “in genere maggior riluttanza a esprimere posizioni che richiedano un orientamento netto…anche se piu’ corrispondente all’interesse nazionale. Eppure si tratta di uno strumento del tutto legittimo, al quale prima o poi ricorrono tutti gli stati grandi e piccoli..” E’ sulle sfide globali, sulla capacita’ di affrontarle in modo compatibile con l’interesse nazionale e con lo Stato di diritto che si misura una modera diplomazia. Le sfide riguardano:

1-Un’esponenziale crescita demografica si concentra in regioni critiche come quella Subsahariana e Mediorientale, con tutte le tensioni migratorie, sociali e politiche che cio’ comporta nei Paesi interessati. Contemporaneamente prosegue il riequilibrio dell’economia mondiale. India, Indonesia e Brasile sono destinati a superare nel medio lungo periodo il Pil dei principali Paesi europei. La Cina  raggiungera’ la vetta in termini assoluti al piu’ tardi entro il prossimo decennio.

2-I cambiamenti climatici. Le opinioni pubbliche sono allarmate da catastrofi naturali e da studi che dimostrano l’estrema brevità del tempo disponibile per salvare il pianeta.

3- il terrorismo jihadista, di matrice sunnita o sciita; imprevista e’stata la rapidissima propagazione dello Stato Islamico. Al suo arretramento, ora, in Iraq e in Siria corrisponde l’accresciuta capacità a colpire l’Europa e l’Occidente, e a diffondersi dall’Afghanistan, al Medio Oriente e al Nord Africa, specialmente in Libia.

4-cyberweapons e cybersecurity hanno assunto pericolosità, globalità e     urgenza del tutto inaspettata;

5- flussi di migranti di entita’ senza precedenti verso l’talia e l’Europa stanno avendo, tra le altre implicazioni, rilevante impatto politico, economico e sociale. La difficolta’ di gestire l’ondata migratoria preoccupa per la coincidenza con attacchi terroristici e  fenomeni di radicalizzazione ;

6-“Proliferano” gli Stati falliti. La lista si è allungata in soli tre anni; dopo le   Primavere Arabe, con Libia, Siria, Iraq, Yemen, senza dimenticare le incognite di Somalia e Afghanistan.

 

L’Occidente, l’Europa e le sfide alla nostra sicurezza                              

Dall’11/9/2001  il terrorismo globale rappresenta la principale sfida alla nostra sicurezza. La minaccia terroristica si intreccia con conflitti tra gli Stati e negli Stati; con guerre etniche e confessionali; con fondamentalismi e volontà di dominio regionale. Dal 2003, con l’eliminazione del Regime Baathista in Iraq, e’ ulteriormente divampato il contrasto all’interno dell’Islam tra la minoranza sciita guidata da una visione messianica e rivoluzionaria, e la vasta maggioranza degli Stati arabi che si oppongono ad una crescita dell’influenza iraniana.

Il successo dello Stato islamico in Siria in Iraq, è maturato in parallelo alla rilegittimazione della teocrazia iraniana da parte Occidentale con l’accordo nucleare. Mentre è ancora attiva l’onda d’urto delle Primavere Arabe e il loro impatto sul Mediterraneo e sul Medio Oriente, ondata terroristica dell’Isis e rilegittimazione post- nucleare dell’Iran richiedono una strategia occidentale di stabilizzazione politica, di deterrenza militare, e la ricostruzione di una affidabile architettura di sicurezza nello spazio Mediterraneo ed Atlantico.

Per numero di vittime, distruzione di risorse e di ordine sociale l’impatto più drammatico del terrorismo e dei “failed states” è subito dal mondo musulmano. Sono milioni le vittime della violenza dall’Afghanistan all’Asia Minore, dall’Africa mediterranea e sub Sahariana, sino alle porte dell’Europa. Decine di milioni di migranti provenienti soprattutto da Paesi collassati da guerre civili si accalcano nei corridoi marittimi e terrestri verso l’Europa Mediterranea e Balcanica; per la prima volta anche in imminenza dell’inverno. È un esodo di proporzioni bibliche. Il suo epicentro in Siria, Iraq, Libia si sta ampliando all’intera regione asiatico-mediterranea.

 

L’attacco all’Europa da parte dei Jihadisti che hanno insanguinato Parigi ha avuto immediate ripercussioni:

     *  a livello internazionale, la riunione del G20 ad Istanbul si è conclusa con il       riallineamento tra i principali protagonisti della crisi siriana;

  • in Francia, il Presidente Hollande ha dichiarato dinanzi all’intero Parlamento: “la Francia è in guerra; la Siria è la più grande industria di terroristi che il mondo abbia mai conosciuto”. La reazione dell’opinione pubblica francese è parsa mutare e in modo considerevole rispetto alle reazioni che erano state registrate in gennaio dopo gli attentati a Charlie Hebdo e all’Hyperkasher. I riflessi sulle elezioni regionali di dicembre sembrano inevitabili. Anche in tale chiave vanno interpretati gli annunci del Primo Ministro Valls che “la Francia espellerà tutti gli Imam radicalizzati”. Lo stato di emergenza è stato concordato tra Hollande e Marine Le Pen; è prevista una revisione della Costituzione francese per renderlo più incisivo. Circa diecimila nominativi saranno aggiunti alle persone già sorvegliate. Più in generale si nota l’assenza di generalizzati appelli, che vi erano stati invece in gennaio, per la solidarietà con le Comunità musulmane. Né si sottolinea più con la stessa insistenza la distinzione tra l’Islam moderato e quello fondamentalista o la solidarietà con quanti praticano la fede islamica e sono dei buoni cittadini.
  • Si tratta di sviluppi che coinvolgono l’intero mondo occidentale, e in particolare la campagna presidenziale americana. Tom Ridge, un’autorevole voce sulle questioni della sicurezza interna essendo stato “homeland security secretary”, ha detto “i barbari non sono più alle porte. Sono dentro”. Praticamente tutti i candidati alla Presidenza, sia democratici che repubblicani, hanno indurito i toni sulle questioni della sicurezza internazionale, interna, e dell’immigrazione. Ben Carson ha commentato così le anticipazioni di Obama sull’accoglienza in America dei rifugiati siriani “portarli qui in queste circostanze è una sospensione dell’intelletto”. Mike Huckabee vuole impedire l’ingresso a chi provenga da tutti i paesi nei quali vi sia una “forte presenza dello Stato islamico o di Al Qaeda”. Per non parlare di Donald Trump, che ha colto l’occasione per reiterare insulti contro il Presidente Obama “se vuoi accogliere duecentocinquantamila rifugiati siriani, devi essere veramente pazzo”.
  • Nella ricostruzione delle “falle” del sistema informativo occidentale si accumulano, come in tutti i grandi atti terroristici a partire dalle Torri Gemelle, diffidenze e addebiti di responsabilità. Il direttore della CIA ha subito stigmatizzato che le “mani legate nell’acquisizione di dati” e nella collaborazione transatlantica, in conseguenza delle rivelazioni di Edward Snowden nel 2013 hanno facilitato l’opera dei terroristi soprattutto perché si sono potuti avvantaggiare di comunicazioni criptate non penetrabili dall’intelligence.

 

Le rappresentazioni della realtà internazionale

In questi quattordici anni l‘“Occidente” – Europa e Stati Uniti – ha contrastato terrorismo e conflitti dandosi rappresentazioni spesso inesatte della realtà internazionale.Le rappresentazioni sono state a volta ispirate da ottimistiche agende di ”esportazione della democrazia”; altre volte dalla fiducia di poter avviare dialoghi “trasformativi”, ad esempio con l’Islam politico; o dalla speranza di influire, attraverso dialogo e diplomazia, sull’evoluzione  di regimi  che reprimono i diritti umani e le libertà fondamentali, che fomentano  guerre civili, genocidi e pulizie etniche.

Passata la breve stagione della “Responsabilità di Proteggere” quale imperativo morale e politico della Comunità internazionale, un uso accorto e instancabile di dialogo e diplomazia basterebbe, secondo una certa visione del mondo, a trasformare anche i regimi più dispotici e violenti in “partners responsabili” sulla scena internazionale. Da sette anni a questa parte ha prevalso in Occidente questa rappresentazione della realtà. Essa ha dato al grande pubblico la sensazione che il solo “soft power”, disgiunto dalla determinazione politica e dalla deterrenza militare, possa sradicare il terrorismo e ricostituire stabilità regionali. La cartina di tornasole sta nell’esperienza dell’Amministrazione Obama. Un acceso dibattito si è sviluppato negli ultimi mesi sulla sua performance di politica estera. La questione coinvolge direttamente anche noi europei.

 

”Soft power ” e “hard power”

Da un lato vi sono i sostenitori di un approccio basato sulla ricerca di alleanze, di partnerships multilaterali, di un “soft power “quale unica via percorribile e alternativa all’uso della forza. Subentrato a un predecessore accusato di gravi errori specialmente in Iraq, Obama si è mostrato sin dall’inizio riluttante – esattamente come i Paesi Europei – ad assumere impegni militari nelle crisi che si stavano sviluppando. Cauto nell’evitare iniziative rischiose e passi falsi, il nuovo Presidente si è sempre detto  convinto che il tempo gioca non contro, ma a favore di un “ordine internazionale basato su principi liberali”, intrinsecamente “resilient ” e capace  di attrarre.L’intero schieramento democratico in America come il “mainstream” dell’opinione pubblica in Europa ha condiviso l’impostazione di politica estera che ha contraddistinto il primo mandato dell’Amministrazione Obama.

E ancora oggi, al crepuscolo del secondo mandato, è considerevole il consenso che ottiene anche in Europa una linea basata sulla volontà di evitare –  ad ogni costo – non soltanto il confronto, ma anche l’utilizzo di strumenti di pressione economico- finanziaria, di azioni diplomatiche concertate e incisive,  di una comunicazione politica che ribalti l’impatto di disinformazioni e pregiudizi antioccidentali.

Stride il divario tra le potenzialità politiche, economiche e militari dei Paesi Atlantici e l’incapacità di affermare adeguatamente l’interesse nazionale dell’America e dei Paesi europei nei confronti di Paesi che in misura crescente creano dei fatti compiuti attraverso un illegale e spregiudicato impiego della forza, esercitata sia direttamente sia attraverso i loro “proxies”. Le maggiori critiche si coagulano sul divario crescente tra risorse e volontà politica dell’Occidente.

Ci si chiede se non sia stata assai prematura l’affermazione di Obama nel maggio 2013 che al Qaeda era “ sulla via della sconfitta” e la guerra al terrore ultimata; o sostenere nel 2012 che l’Iraq era “meno violento, più democratico e prospero, e gli Stati Uniti più profondamente impegnati in tale Paese, di quanto non fosse avvenuto in qualsiasi altro momento della storia recente”.

Troppe le promesse disattese, sostengono i critici di Obama e dell’inadeguato ruolo Europeo: dal fallito “reset” con la Russia, alla inattuata chiusura di Guantanamo, dalla mancata riaffermazione del prestigio americano in tutto il Medio Oriente, all’inconcludente rilancio dei negoziati israelo-palestinesi. I risultati più importanti sono mancati.  Nè migliora  il quadro un accordo nucleare con l’Iran che presenta considerevoli incognite politiche e tecniche e consente a  Teheran  di accedere a cospicue risorse finanziarie per sostenere i suoi disegni di preminenza regionale  e per alimentare le formazioni militari e terroriste alleate di Teheran in Iraq, Libano, Gaza, Siria, Afghanistan.

La dottrina obamiana del “ nation building at home”, di volersi concentrare sulla politica interna più che su quella estera, della non interferenza in Paesi dove stanno avvenendo genocidi e pulizie etniche a meno che sia sempre l’Onu a decidere, pesa assai negativamente – sostengono i critici – sulle responsabilità e sul ruolo globale dell’America. Di riflesso, tutto ciò pregiudica ancor più l’Europa dato che la sua politica estera, di sicurezza e di difesa appare ancora embrionale e prevalentemente  declaratoria.

 

Il senso di un vuoto per l’Occidente

Si è creato un vuoto nella volontà occidentale di prevenire e  affrontare le crisi con la necessaria unità di visione politica. Un ampio spazio, per la prima volta nel secondo dopoguerra, è stato lasciato libero dalla immanente, spesso problematica, e tuttavia  stabilizzante  influenza occidentale.  Vi si sono potuti inserire agevolmente altri attori come lo Stato Islamico. Un nuovo revisionismo muove Paesi come Iran, Russia e Cina che contestano il patrimonio di valori sociali e umani che ha sancito il progresso della legalità internazionale negli ultimi cinquant’anni.

L’annessione russa della Crimea e la destabilizzazione dell’Ucraina ha smantellato l’architettura europea di sicurezza. Essa era stata basata sul rifiuto assoluto dell’uso della forza nel continente europeo.  La violazione russa dello Statuto delle Nazioni Unite è stata sanzionata in modo quasi unanime dall’Assemblea Generale. Ma il danno per ora è irreversibile.

 La Cina sta cercando di delimitare unilateralmente un suo nuovo mare interno, appropriandosi di isolotti semisommersi a grandissima distanza dalle sue coste, in contrasto con le rivendicazioni di altri Stati della regione  e con la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del mare.La Siria è diventata un campo di battaglia dove Iran e Russia  sono schierati senza alcun mandato dell’Onu dalla parte degli sciiti contro i sunniti, senza troppo preoccuparsi di colpire, con gravissimi “danni collaterali” e vittime tra la popolazione, comunità sunnite che poco o nulla a che fare hanno con l’Isis. Diventa moneta corrente, il ricorso alla forza, lo spregio dei meccanismi legali per la risoluzione delle controversie, la creazione di stati di fatto estranei a qualsiasi iniziativa diplomatica.

 In diversi casi l’Occidente si è fatto male da solo. La sua credibilità e influenza   sono state danneggiate. Siamo entrati in un’era di “disordine globale”. Le certezze devono essere faticosamente ricostruite, anzitutto quella della legalità internazionale. La sottile distinzione tra centro e periferia nelle priorità della sicurezza è svanita da tempo.

 L’elezione presidenziale americana del 2016 riproporrà quindi – e su questo critici e sostenitori di Obama  concordano – l’alternativa tra una politica estera e di sicurezza dell’America e dell’Occidente in versione “obamiana”, e una visione “espansiva”. L’Europa deve prepararsi a una ridefinizione delle strategie dell’Occidente perché i dati dell’equazione globale stanno mutando rapidamente: sicurezza, migrazioni, conflittualità etnico-religiose, terrorismo, sfide globali a cominciare da quella climatica, richiedono una profonda trasformazione delle politiche nazionali e il rafforzamento dei valori atlantici.

 

I limiti della politica estera, di sicurezza e di Difesa dell’Unione Europea

Nelle regioni che più influiscono sulla sicurezza dell’Europa e sulla nostra coesione politica e sociale la politica estera, di sicurezza e di difesa dell’Europa è esposta a critiche simili a quelle che sono rivolte a Obama. Per l’Unione Europea e per il nostro Paese vi sono delle aggravanti.

a)La prima riguarda la rinazionalizzazione delle politiche estere.

Appena nominata l’Alto Rappresentante Federica Mogherini ha constatato pubblicamente che la politica estera resta essenziale dominio dei singoli Stati membri. Constatazione veritiera; ma deludente dopo tutti gli sforzi riposti dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2010, per imprimere un netto salto di qualità nella politica estera e di sicurezza dell’Unione Europea. Dopotutto il ruolo affidato all’Alto Rappresentante concentra competenze e poteri di coordinamento che dovrebbero farne l’elemento di maggior potere nell’intera Governance europea. L’Alto Rappresentante dovrebbe essere la voce più autorevole su tutte le materie che vanno dalla politica estera e di sicurezza, alla Difesa, dallo sviluppo alla dimensione sociale, dai partenariati alle migrazioni e agli affari interni.

  1. b) Il secondo “handicap” per l’Unione deriva dalla tendenza a protagonismi, agende politiche, fughe in avanti suggerite da interessi particolari, politici, economici e ancora una volta, soprattutto, di sicurezza. Il Mediterraneo e il Medio Oriente rappresentano da cinque anni la maggior criticità per la sicurezza dell’Europa, ed ora anche per il suo tessuto economico-sociale in ragione del fenomeno migratorio. Almeno altri tre milioni di migranti verso l’Europa sono previsti dalla Commissione Europea entro il 2016. Una stima riduttiva se si considerano le valutazioni del World Food Programme (WFP) ad esempio, sui rifugiati in Giordania: una buona percentuale del milione di siriani ospitati temporaneamente da Amman sarebbe pronta a muoversi verso l’Europa.

Ma le “agende nazionali” continuano a limitare il ruolo dell’Unione. Mentre gli ordini del giorno dei Consigli Europei davano grande urgenza sin dalle prime settimane del 2011 alla risposta che l’Unione doveva dare alle “Primavere Arabe”, e poi ai rivolgimenti in Tunisia, Egitto, Libia, Siria, le risorse finanziarie e le iniziative politiche europee destinate al Mediterraneo e al Medio Oriente venivano continuamente rinviate o nella migliore delle ipotesi assegnate col contagocce. Nonostante i loro accorati appelli i Paesi mediterranei  non erano ascoltati  da una Mitteleuropa concentrata sull’austerità  dell’Eurozona. L’attenzione di Bruxelles e Berlino continuava a essere soprattutto rivolta al Partenariato Orientale, con le conseguenze che sappiamo.

C’è voluta l’inattesa, e alquanto prevedibile, emergenza migratoria attraverso i Balcani, e il rischio di un sempre più drammatico esodo dalla Siria per far evolvere radicalmente l’atteggiamento di Berlino. Nel giro di poche ore il Cancelliere Merkel ha cambiato vistosamente una linea  seguita per anni: si è recata a Istanbul per assicurare alla Turchia un incondizionato sostegno politico  e economico che ha giovato al successo elettorale di Erdogan. E gli ha promesso l’apertura di nuovi cruciali capitoli nel negoziato di adesione all’UE–sinora bloccato da Berlino e Parigi- nonché un aiuto finanziario sei volte superiore a quello proposto inizialmente dalla Commissione per i campi profughi della Turchia.  Il vertice di Malta UE-Africa ha dato risultati modesti e i Paesi africani hanno insistito sulla necessità di avere nell’Unione un interlocutore che disponga di una linea politica migratoria.

  1. c) Un terzo aspetto riguarda la tendenza delle Istituzioni brussellesi a preannunciare obiettivi fuori portata, utili al più ad attrarre facili consensi: ad esempio in campo arabo-palestinese, senza  che l’Unione  sappia tuttavia dimostrare una vera leadership nel negoziato con Israele, e nonostante i cospicui stanziamenti destinati all’Autorità Palestinese. Sarebbe invece auspicabile un marcato impegno politico unito a concrete iniziative europee che riducano le  crescenti tensioni tra l’Unione  Europea e Israele, e tra palestinesi e israeliani.

Per la Libia si è alla fine deciso di avviare l’operazione navale di salvataggio dei migranti e di limitato contrasto ai trafficanti dopo aver atteso per sei mesi l’autorizzazione dell’Onu. Un’attesa ingiustificata se la risoluzione 2240 del CdS è stata giudicata dagli esperti irrilevante sotto il profilo giuridico perché meramente compilatoria di norme già ben delineate  dall’ordinamento internazionale. Inoltre, per sostenere le autorità libiche nel controllo delle frontiere in mano a milizie armate e a entità terroristiche  come lo Stato Islamico, la missione europea Eubam  è stata formata da sole diciassette persone, confinate per oltre un anno  a Tunisi.

  1. d) In un quadro problematico, lo sforzo di un Paese come il nostro dovrebbe – io credo- far leva su tutti gli strumenti che esistono nel Trattato di Lisbona. Devono essere finalmente attivate le “cooperazioni rafforzate” per la politica estera e di sicurezza tra nuclei anche ristretti di Paesi, come quelli Mediterranei, che possono essere autorizzati ai sensi del Trattato di Lisbona a assumere tra loro iniziative mirate alla stabilizzazione della Libia. L’Alto Rappresentante ha piena autorità per portare aventi tale percorso.

Roma è stata ripetutamente sollecitata da Washington e da altri partners a farsi capofila di una “coalizione di volonterosi” che sostengano sul piano diplomatico, e al momento opportuno anche per la sicurezza, la ricostituzione dello Stato Libico. Abbiamo purtroppo voluto rimanere in panchina, astenendoci perfino dal designare un nostro Inviato speciale di alto profilo ed esperienza politica, che entri con decisione nelle numerose questioni aperte dalla grave crisi che continua a dilagare a sud del nostro mare.

La deludente performance dell’Inviato Onu Bernardino Leon, che avrebbe negoziato con gli Emirati Arabi un lucroso incarico esponendosi così alle critiche di diverse fazioni libiche proprio nella fase decisiva del negoziato per il Governo di Unità nazionale, dimostra come il nostro interesse alla soluzione sulla Libia non dovrebbe permettere di restare nelle mani di nessuno.

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I messaggi dei  Governi sulla realta’ internazionale devono essere  comprensibili al grande pubblico. Esiste nel nostro Paese uno stereotipo, tra i molti. Il Diplomatico deve necessariamente essere un “negoziatore debole”, incline al compromesso a tutti i costi. Non e’ affatto cosi’. La formazione di quanti dedicano il loro impegno professionale alla tutela degli interessi dell’Italia riguarda specificamente la capacità a negoziare. La missione di un Ambasciatore consiste nel farsi “avvocato” delle posizioni, degli interessi, dell’immagine del suo Paese, delle istituzioni che lo governano e della sua gente; di esserne portavoce e sostenitore in ogni contesto, e persino nelle situazioni piu’ difficili e rischiose.

Nelle scelte complesse, come i voti da esprimere alle NU, sulla crisi siriana o su temi etici, l’Italia dispone di considerevole credibilità e influenza. Ma dobbiamo cogliere meglio le opportunità di fare politica ,di comunicarla, di suscitare consenso. Per contro, ci danneggiano le oscillazioni e i ripensamenti improvvisi; il lasciarci   trascinare da altri; l’utilizzo della politica estera per grette operazioni di politica interna , come nelle decisioni sul Trattato di Osimo, o ancor peggio per favorire interessi affaristici come nel caso dei nostri Maro’. Vi sono state incoerenze che ci hanno danneggiato. Ne abbiamo subito le conseguenze in Europa e in ambito atlantico.nvistosamente posizione , si pagano a caro prezzo in termini di solidarietà tra Alleati e di credibilità del Paese.Dobbiamo dare prova di maggior coerenza  e fiducia  nei nostri valori e in noi stessi.

Per una “superpotenza culturale” – quale è l’Italia – gli interessi primari si saldano all’ identità nazionale. Neppure in politica estera relativismo e indeterminatezza sono opzioni felici.

 

 

 

©2024 Giulio Terzi

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