Discorso “ITALIA IN LIBIA: DALLA DISTRUZIONE ALLA COSTRUZIONE”

Processo di Institution Building e ruolo dell’Italia

Università Sapienza, 25 maggio 2016

 

Sono passati più di cinque anni da quando il 15 febbraio 2011, quattro giorni dopo le dimissioni di Mubarak, un gruppo di avvocati è sceso in strada a Tripoli per dimostrare contro l’arresto di un loro collega. Nei giorni successivi, incoraggiati dalle notizie che arrivano via Facebook dalla Tunisia e dall’Egitto, migliaia di libici si uniscono alle manifestazioni. Solo due giorni dopo, il 17 febbraio, le forze di Gheddafi uccidono una dozzina di persone. La rivolta si propaga immediatamente. Il 18 febbraio a Bengasi è subito una rivolta armata. Diversamente da quanto avvenuto nelle fasi iniziali a Tunisi e al Cairo,‎ in Libia il terreno della rivoluzione anti Gheddafi era maturo da tempo. Gruppi islamisti e non erano pronti a sostenerla. Disponevano di capacità militare, tanto che sin dai primissimi giorni essi riescono a impadronirsi di centri strategici in Cirenaica e a lanciare attacchi verso Ovest.

In soli cinque giorni il conflitto si generalizza. Il Consiglio di Sicurezza il 22 febbraio condanna l’uso della forza contro i civili; chiede l’immediata cessazione delle violenze; esorta il Governo a rispondere alle legittime esigenze della popolazione, e a consentire il passaggio degli aiuti umanitari.

Per una volta almeno nella storia delle colpevoli distrazioni e dei ritardi nel rispondere a massacri e genocidi, la pressione internazionale sembra aumentare immediatamente. Sempre quel 22 febbraio, appena cinque giorni dopo le prime vittime, la Lega Araba condanna la Libia e la sospende dall’organizzazione.

Il Presidente Obama reitera la sua condanna delle violenze e chiede al National Security Council opzioni per una risposta. Come ricorda Robert Gates nelle sue memorie, le diverse opzioni riguardavano l’imposizione di una No-Fly Zone e altre forme di dissuasione militare. Ma il “security team” della casa Bianca si divide. Chi è contro  argomenta che la Libia non rappresenta un vitale interesse nazionale per gli Usa; che un terzo attacco occidentale in un decennio contro un paese musulmano-per quanto odioso possa essere il suo regime-sarebbe gravido di contraccolpi pericolosi; che le Forze Armate Usa sono “overstretched” e un’azione in Libia non si chiuderebbe necessariamente subito. Sul lato avverso, si fanno sentire i sostenitori della “responsabilità di proteggere”, e le voci preoccupate per l’instabilità di un paese strategico nel Mediterraneo e in Africa per la necessità di un coordinamento Nato degli interventi già avviati da parte francese e britannica. La decisione della Casa Bianca è assai tormentata. Come raccontano tutti i principali protagonisti e lo stesso Obama nella intervista di pochi mesi fa a The Atlantic, riesce estremamente difficile dare una motivazione razionale e coerente con la “filosofia Obama” di utilizzo della forza militare solo quando necessario a difendere vitali interessi nazionali americani, o nel quadro degli obblighi del Trattato di Washington.

La stessa Hillary Clinton dice di essersi convinta a un’azione militare solo dopo le consultazioni da lei avute con la Lega Araba, in particolare con gli Emirati, e soprattutto con il Foreign Secretary inglese. William Hague, dice la Clinton, era preoccupato quanto lei della “razionalità, della strategia, e dell’end-game” di un intervento in Libia: in altre parole dell’obiettivo e del risultato politico; ma su tutte queste preoccupazioni prevaleva per gli inglesi la preoccupazione di un massacro che stava per essere perpetrato dalle forze di sicurezza del regime.

 

Credo sia impossibile discutere seriamente del consolidamento istituzionale in Libia  e del ruolo della comunità internazionale, in particolare dell’Italia, senza considerare con equilibrio la genesi del coinvolgimento esterno nella rivoluzione anti-Gheddafi, e le vicende che hanno impedito una soluzione sinora soddisfacente. Ho sempre trovato lo slogan “abbiamo sbagliato a favorire la caduta di Gheddafi “molto offensivo nei confronti della popolazione libica, oppressa e devastata da quella dittatura per quarant’anni; oltre che essere una frase riprovevole se pensiamo alla sofferenza inflitte dal dittatore libico a centinaia di migliaia di nostri connazionali e di ebrei perseguitati e cacciati dal paese. Se si esamina quanto avvenuto nella primavera 2011, trovo anche bizzarro sostenere che la “pacificazione” con metodi tipo Assad  avrebbe prodotto un “end game” in Libia molto migliore di quello attuale. Non è forse la Siria di Assad ad averci regalato lo Stato islamico?

 

La direzione che deve prendere la ricostruzione dello Stato Libico e le decisioni sul ruolo dell’Italia devono essere ancorate alla realtà‎. Non dobbiamo defilarci da responsabilità storiche e politiche, né possiamo giocare attorno a nostri fondamentali interessi nazionali: economici, di sicurezza, di stabilità nel Mediterraneo e in Nord Africa. Una corretta visione dell’ “Institution Building” nella Libia di oggi richiede una corretta lettura delle tipicità della rivoluzione libica, della mancata stabilizzazione nel 2012/2013, delle pericolose involuzione dei due anni successivi. Dove, quando, come si poteva capire meglio il grande pericolo di una caduta libera nel caos?  Si doveva fare di più per impedire la frammentazione del Paese? C’era spazio per incoraggiare dall’interno e dall’esterno il processo Costituzionale, investendovi tutto il necessario capitale politico e di risorse ?

Tempi e caratteristiche della rivolta, condizioni politiche e sociali differenziano la crisi libica dalle altre Primavere Arabe.

 

  1. In primo luogo, la reazione del mondo arabo, europeo e occidentale, pur nelle diverse “agende nazionali” perseguite, è stata, come ho detto, praticamente immediata, anche se in presenza di difficoltà e lacerazioni politiche a Washington, Parigi, Roma e altrove. Il clima in Consiglio di Sicurezza, era in via di deterioramento con l’astensione Russa e di altri quattro importanti paesi sulla Risoluzione 1973 del 17 marzo 2011 (seguita alla prima Risoluzione n. 1970 del 26 febbraio 2011), non era ancora pregiudicato al punto da bloccare il Consiglio di Sicurezza, come poi avvenuto nel successivo quinquennio dinanzi al genocidio siriano.

 

  1. La rivolta contro il regime ha assunto sin dall’inizio carattere di lotta armata e di confronto militare tra milizie, gruppi di insorti e apparati di sicurezza del dittatore libico. Non era stato così in Tunisia, Siria, Egitto, dove per diversi mesi manifestanti disarmati cadevano vittime di una repressione spietata, soprattutto in Siria. In Cirenaica esistevano forze Jihadiste che certamente sottovalutate dall’Occidente almeno sino alla drammatica fine dell’Ambasciatore Americano Chris Stevens. E’ stata soprattutto la frammentazione etnico-tribale, oltre che politica del Paese a creare sin dall’inizio un’enorme sfida alla sicurezza mediterranea, nordafricana e ora, con le migrazioni e il radicamento dello Stato Islamico, alla sicurezza dell’Europa e dell’Italia.

 

3.‎ La “debolezza” del Governo Nazionale Transitorio si è costantemente manifestata dalla fine del 2011 e per tutto l’anno seguente. L’estrema difficoltà di tali Governi a attuare gli impegni assunti all’interno e verso la comunità Internazionale nasceva da due fattori, ancora una volta sottovalutati da molti: il primo, la dissoluzione delle strutture statuali di sicurezza con proliferazione di quelle claniche e locali; il secondo, la crescente presa tra la popolazione delle organizzazioni dell’Islam politico. Se si guarda agli sviluppi del percorso costituzionale libico si rileva una sostanziale coincidenza temporale tra le crescenti preoccupazioni della dirigenza libica nei confronti degli islamisti, e il giro di vite della Presidenza Morsi in Egitto sulla società laica e sulle componenti democratiche del paese. L’esempio egiziano, come sappiamo bene, non è stato il solo incoraggiamento per gli islamisti libici; un forte sostegno è venuto da alcuni Paesi del Golfo. Eppure lo svolgimento pacifico e composto delle elezioni per il Congresso Nazionale del 7 luglio 2012 avrebbe potuto dare maggior impulso a una nuova Costituzione; ma incombe sopra ogni altra la questione della sicurezza. Ed è proprio sulla ricostituzione di una credibile ed efficiente sicurezza che tutti i governi coinvolti nella questione libica dal 2012 sono stati, a mio modo di vedere, particolarmente carenti.

 

Mi sia consentito di partire da quella Dichiarazione di Tripoli del Gennaio 2012. Essa ridisegnato le fondamenta delle nostre relazioni con la Nuova Libia.

 

Nonostante i quattro anni trascorsi e l’evoluzione che ha portato all’Accordo di Skhirate del 17dicembre 2015, al sostegno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Ris. 2259/2015) al Governo di Accordo nazionale quale unico governo legittimo,‎ e alla enfasi posta dallo stesso CdS al momento del rinnovo della missione UNSMIL (Ris.2273/2016) sugli aspetti sia “politici” sia di “sicurezza”, la “Tripoli Declaration” del 21 gennaio 2012, non solo anticipa le linee guida di natura politica dell’Institution Building; la dichiarazione del 27/1/2012 si sintetizza in due parole “security first”.

 

È dalla volontà politica di tutte le parti, dentro e fuori la Libia, di creare una efficiente e durevole architettura di sicurezza che dipende una nuova Libia: improntata allo Stato di Diritto, rispettosa degli impegni internazionali sui diritti umani, partner affidabile nella lotta al terrorismo, e al traffico dei migranti.

 

Quel 27 gennaio 2012 era chiarissima nella Tripoli Declaration, la posta in gioco della “Security First”. Lo era al Presidente del Consiglio, a me e ai colleghi di Governo che avrebbero nei giorni successivi lavorato per attuarla. L’Italia si impegnava a contribuire, senza ingerenze nella “ownership” libica, a sostenere la transizione nel Paese, a favorirne lo sviluppo economico, a curare negli ospedali italiani i feriti della rivoluzione. Il volet economico era particolarmente significativo: un meccanismo per verificare tutti i crediti reciprocamente tra aziende e enti italiani e Libici; si anticipava un primo ammontare complessivo di crediti per contratti in essere attorno ai 500/600 milioni€; si stabiliva di definire successivamente la questione degli insoluti, di circa 600 milioni€.

 

La grande questione della sicurezza, non lo si sottolineerà ‎mai abbastanza, era parsa subito dominante. Se gli aspetti politici ed economici di quella prima, importante intesa quadro con la Nuova Libia erano significativi, e tra l’altro rilanciavano anche la presenza dei gruppi italiani nei programmi infrastrutturati che il Governo Transitorio doveva comunque riesaminare, erano importanti, non vi è dubbio che la priorità massima sia per Roma che per Tripoli era la Sicurezza. Su questo tema la Farnesina si era impegnata a fondo affinché tutti i Ministeri interessati rispondessero con la massima urgenza al “Piano d’Azione” che sarebbe stato rapidamente messo a punto, insieme a Francia e Gran Bretagna. L’Italia si collocava al primo posto per numero di programmi bilaterali destinati alla Sicurezza libica. Sia nella Tripoli Declaration che in tutte le fasi successive di attuazione i punti focali erano sempre: disarmo e reintegrazione (DDR) dei 165.000 uomini  appartenenti a una miriade di milizie diffuse nel paese; addestramento di forze per il controllo delle infrastrutture petrolifere e dei confini; fornitura da parte italiana di apparecchiature sofisticate per tali scopi; riabilitazione di un certo numero di mezzi navali libici per il controllo costiero; collaborazione per il controllo dei flussi migratori.

 

Come mai, ci si potrebbe chiedere, era proprio il Mae a rappresentare in seno al Governo la voce più allarmata sull’urgenza di ricostituire le strutture di sicurezza? Perché erano osservatori di cui disponevamo, insieme a un’ottima intelligence in quell’area, che rilevavano quella che in pochissimi mesi diventerà un’influenza islamista paralizzante per la transizione, terreno di competizione tra “attori esterni” legati da un lato a importanti organizzazioni dell’Islam politico, e dall’altro a interessi regionali e nazionali contrapposti. In altri termini, i nostri Inviati e Ambasciatori nell’area, ed io stesso nei contatti con altri Ministri europei e mediterranei, pur non disponendo di globi di cristallo per leggere il futuro, vedevamo delinearsi rapidamente una grave frammentazione. Essa avrebbe poi prodotto la rottura parlamentare, le decisioni della Corte Suprema, la separazione fra Tripoli e Tobruk, tra Alba della Libia e Operazione Dignità‎, e infine l’entrata in scena dello Stato Islamico a Sirte e altrove, favorita da connivenze, ammiccamenti, doppiogiochismo e sottovalutazione ogni genere.

“Institution Building” attraverso un dialogo nazionale inclusivo e mirato alla costruzione di uno Stato democratico, basato sulla Rule of Law, efficiente nel fornire sicurezza e servizi a tutti i cittadini ha continuato a essere la costante di tutte le principali tappe nelle quali l’Italia ha svolto un ruolo significativo. Un ruolo peraltro non incisivo quanto avrebbe potuto essere. Così è stato alla Conferenza di Roma del 6 Marzo 2014, convocata in base a quanto avevo ottenuto – non senza qualche fatica – alla Conferenza di Parigi del 12 Febbraio 2013. A Parigi avevo insistito per andare al di là di generici impegni, per renderli pubblici e politicamente vincolanti soprattutto nel campo della sicurezza. L’Italia, in altre parole, insisteva  alla Conferenza di Parigi per mettere nero su bianco programmi e contribuzioni di tutti i Governi più interessati alla Libia, in un “Governance Compact” adottato insieme alle “Conclusioni” politiche della Conferenza. La strategia si confermò anche in seguito: alla conferenza di Roma, del marzo 2014; al Summit G8, dove l’enfasi venne ripetutamente riposta sulla “Security Sector Reform”, sulla “Disarmament, Demobilization end Reintegration”, su “Arms and Ammunition Control”, su “Border security”, sulla “Oil Police”. Un’impostazione analoga caratterizza anche la conferenza di Roma del 13 Dicembre 2015, voluta dagli Americani soprattutto in chiave anti Isis dopo gli attentati in Europa e l’allarme ormai diffuso per il rafforzarsi dello Stato Islamico nel teatro operativo libico. Con questa essenziale preoccupazione, il 15 marzo si tiene sempre a Roma una riunione di oltre 30 paesi, per definire i contorni di una “Libya International Assistance Mission – LIAM” – e approntare una pianificazione nell’ipotesi, nella definizione data dal Ministro Gentiloni, di una richiesta di assistenza all’ONU “da parte di un Governo legittimo”.

 

Tra dicembre 2015 e oggi è tuttavia innegabile che i segnali dati dai paesi occidentali sono troppo indeterminati, spesso contradditori, non di rado rivelatori di un latente tentativo di disimpegno e di volontà di “parlare d’altro”. Questo avviene per i messaggi e il tipo di comunicazione politica che Roma e altre capitali occidentali riservano alla grande questione del consolidamento istituzionale della Libia, alla ricostruzione della sua sicurezza interna e regionale, al contrasto allo Stato Islamico, alla prevenzione di attacchi in Europa e al collegamento tra flussi migratoria, radicalizzazione e estremismo. Si avvia tra semi-smentite e giri di parole un embrione di pianificazione militare, ma si tende a tenere in ombra le priorità di dominanti in tema di Sicurezza. I firmatari del “Libyan political Agreement”, le hanno descritte chiaramente; esse impegnano tutta la comunità internazionale dato che l’“Agreement” viene subito “santificato” dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Ci si sarebbe aspettati che nelle riunioni degli ultimi cinque mesi tra i principali protagonisti della questione libica venisse concordato un ampio ‘Security Compact’ con progetti esecutivi, stanziamenti di bilancio, raccordi precisi con il “Libyan political Agreement”. Bisognerebbe ricordare che il principale fattore di avvitamento della situazione libica nel corso del 2012 è stato, insieme alle tensioni politiche derivanti dalla propagazione fondamentalista, la carenza totale di risorse e di impegno nell’affrontare una vera Security Sector Reform.

 

Dopo la morte di Gheddafi il Governo Transitorio aveva rapidamente creato una Commissione per le questioni degli ex Combattenti. Molti dei 162.000 miliziani registrati dalla Commissione erano “illetterati” e bisognosi di scolarizzazione; in tanti erano interessati a essere inquadrati nella polizia o nelle Forze armate; le loro aspirazioni erano rivolte a crearsi un’esistenza di normalità, a ottenere una borsa di studio, ad avviare attività economiche, ad avere una famiglia. Il responsabile della Commissione, Mustafa El Sagezli, già Vicecomandante della Brigata Martiri del 17 Febbraio, imprenditore laureato alla London school of Economics, sapeva perfettamente che le milizie erano situate su linee di frattura regionali, etniche, tribali e religiose. Ma era convinto che la loro reintegrazione nella società libica fosse la condizione essenziale e ineludibile di ogni percorso di Institution Building.

‎Ben presto i programmi di disarmo delle milizie, di compensazioni finanziarie e di reintegrazione degli ex combattenti si mostrarono inficiati dalla mancanza di risorse e dalla porosità dei confini. Inutile ritirare Kalashnikov a caro prezzo da chi poteva reimportarne subito altri. La progressiva disaggregazione del quadro politico e di sicurezza, l’intolleranza di alcune componenti libiche verso qualsiasi ipotesi di “interferenza esterna” persino delle Nazioni Unite, non potevano che costituire un’ipoteca a sostegni immediati e diretti alla ricostituzione del quadro di sicurezza. Tuttavia, è giudizio diffuso, e secondo me corretto, che il deterioramento della situazione abbia fatto comodo a chi pensava che i libici si sarebbero alla fine stancati di combattersi e dividersi tra loro; che non si poteva fare alcunché senza decisioni vincolanti in tutti i dettagli da parte del CdS dell’Onu; senza un Governo che dimostrasse di essere legittimo e accettato in tutto il Paese e che avanzasse richieste precise. C’erano priorità più immediate che non quelle della sicurezza, da rappresentare alle opinioni pubbliche europee, dalla stabilità dell’Eurozona, all’occupazione, ai diritti civili.

 

L’Accordo di Skhirat‎e, le emergenze dell’Isis e delle migrazioni impongono, mi sembra, di riprendere con serietà il tema di un “Security Compact” che definisca risorse, contributi logistici, militari, operativi per la stabilizzazione Libica. Il Security Compact deve corrispondere evidentemente al Libyan Political Agreement, recepito dall’Onu. In cosa consistono i principali impegni?

 

1- Il primo riguarda la protezione dell’integrità territoriale e nazionale del Paese, punto di estrema importanza per la diplomazia italiana, ma non avvertito con uguale intensità da alcuni nostri alleati. Nelle ultime settimane l’intervento contro lo Stato Islamico ha riproposto il contrasto tra il Generale Heftar e il Governo del Primo Ministro Serraj, rendendo anche più difficile il componimento delle influenze esterne.

 

2- Il secondo aspetto riguarda il monopolio dello Stato nell’uso legittimo della forza, il rigetto della violenza e della minaccia a fini politici, la lotta contro il terrorismo in ogni sua forma, il “monopolio” dello Stato  sulle Forze Armate e della Sicurezza nel rispetto della legalità e delle norme internazionali sui diritti umani e il diritto umanitario.

 

3- Viene altresì sottolineato dall’Accordo, ed è questo un terzo aspetto di grande rilevanza, l’impegno ad attuare le decisioni dell’autorità legislativa sulla smobilitazione e l’integrazione delle formazioni armate nelle istituzioni civili e militari dello Stato; e la riabilitazione dei miliziani secondo gli standards e le pratiche internazionali; la rimozione di tutte queste formazioni dalle zone residenziali da quelle civili a dai quartieri generali militari.

 

Sino al 30 marzo scorso, momento dell’arrivo di al-Sarraj a Tripoli con il sostegno italiano, il processo di frammentazione della sicurezza e il ricompattamento nel fronte rivoluzionario islamista da un lato e in quello facente capo all’Operazione Dignità e al Generale Haftar dall’altro, si traduceva in un quadro ingovernabile; con due Parlamenti e due Esecutivi.

 

La stabilizzazione libica ora dipende da una sostenuta e forte azione internazionale. Da tempo i principali protagonisti riconoscono che la crisi dello Stato Libico è derivata dalla latitanza e incertezza della Comunità Internazionale nel sostenere con decisione l’ “Institution Building” dopo l’orribile fine toccata a Gheddafi. L’assenza della scena libica ha riguardato i principali paesi europei, gli Stati Uniti ed i paesi della regione, alcuni dei quali hanno anzi esercitato interferenze certo non trascurabili nell’attizzare ulteriori frammentazioni e animosità. Nettamente insufficiente è stata anche l’azione delle Organizzazioni internazionali, a cominciare dalla Unione Europea, per proseguire con le Nazioni Unite, la Lega Araba e l’Unione Africana. Nell’intervista dell’aprile scorso a The Atlantic “Quando torno indietro e mi chiedo cosa è andato storto, c’è spazio per le critiche, perché avevo più fiducia che gli europei, data la vicinanza alla Libia, investissero nel follow-up” … abbiamo ottenuto un mandato Onu, costruito una coalizione, costataci un miliardo di dollari… Abbiamo evitato vittime civili su larga scala, prevenuto … un conflitto civile prolungato e sanguinario”. “E nonostante tutto ciò, la Libia è un caos”….

 

Nell’intervista Obama si dice “indispettito” nei confronti di alleati “scrocconi” tra i quali mette in primis gli europei. Il mea culpa sembra essere diventato l’exit strategy anche per altri, soprattutto a Parigi e a Londra. In Italia prevale il pensiero cinico dello “stavamo meglio con Gheddafi”. Preoccupa che i Governi dicano di avvertire una precisa responsabilità per la stabilità in Libia e per un termine alle sofferenze del suo popolo, ma continuino poi a discettare del passato, a fare analisi sul presente, e ad aspettare il futuro.

 

Si deve invece agire con ben diversa determinazione: riannodare il dialogo tra i principali interlocutori libici e, se ciò non è possibile, emarginarli politicamente e sanzionarli all’ONU, all’EU e alla Lega Araba. Occorre subito – non, come è facile dire, “quando esisteranno le opportune condizioni politiche” –  una strategia a diversi livelli per ricostruire la sicurezza interna, controllare le frontiere, governare i flussi di migrazione. L’emergenza si chiama anche Stato Islamico. C’è la minaccia, dimostrata dagli attentati a Bruxelles e a Parigi, di una crescente ramificazione e radicalizzazione Jihadista tra le centinaia di migliaia di clandestini che arrivano in Europa. Si deve quindi guardare tutte le misure di “enforcement” praticabili nell’ambito della legalità internazionale.

 

Sono innumerevoli le occasioni multilaterali nelle quali si è discussa, in coincidenza con il rapido deteriorarsi della situazione, una strategia complessiva, da ultimo alla riunione Ministeriale del 16 maggio a Vienna dove, nonostante gli ottimismi della vigilia, si è ricaduti nel torpore del “wait and see”. Non sono sino ad oggi state messe in campo risorse adeguate, né sul piano della azione diplomatica né su quello della sicurezza. Sorprende che l’Italia abbia deciso di inviare forze speciali in crescente numero per combattere l’Isis in Iraq, ma non lo faccia in Libia: vale più la sicurezza della diga di Mossul che la difesa dei confini nazionali dalle infiltrazioni dallo Stato Islamico, dal suo controllo del petrolio e dei flussi di migranti? Con il radicamento dell’Isis a Sirte la situazione si è ancora più complicata. E non solo per la minaccia diretta alla sicurezza dell’intera Regione e del nostro Paese. Essa si è ancora più complicata perché il collegamento dei leader politici con le milizie ha ripreso quota, senza alcun segno di disarmo delle fazioni armate o di un loro assorbimento nelle Forze Armate nazionali. Le dichiarazioni sulla stampa italiana di alcuni protagonisti della scena libica contro anche mere ipotesi di missioni di Peacekeeping dell’Onu, dimostrano le difficoltà con le quali si confronta il “Government  of National Accord”.

 

Lo Sato Islamico ha puntato sulla Libia come nuovo trampolino per l’affermazione del Califfato.  La pressione che subisce l’Isis in Iraq e in Siria viene compensata da una capacità di attrazione di combattenti locali e di foreign fighters in Libia, oramai stimati al di sopra delle 5 mila unità. La strategia dello Stato Islamico nel Paese è stata:

– le capacità di autofinanziarsi con il petrolio;

– il collegamento con il traffico dei migranti, con prospettive redditizie sul piano economico e per l’attività terroristica in Europa;

– i sequestri di stranieri, costati la vita ai connazionali Piano e Failla, in una vicenda presentata come criminalità comune. E’ forte il dubbio che vi sia stata la volontà di ridimensionare la minaccia dello Stato Islamico per giochi di potere interni soprattutto a Tripoli, mentre l’Isis stava acquisendo in Libia, in misura persino più pronunciata di quanto non fosse  riuscita a fare in Iraq e in Siria, la capacità di collegarsi stabilmente con Organizzazioni jihadiste dentro e fuori il Paese;

– la Tunisia è diventa un possibile retroterra per lo Stato Islamico nonostante i grandi sforzi del Governo Tunisino nel combatterlo. L’attacco del 7 marzo a Ben Guerdane, tra le località meglio sorvegliate nel Paese, si è inserita in una lunga catena di attentati in Nord Africa. Dalla Libia, l’Isis vuole destabilizzare un’intera area che va da Algeria a Mauritania, Mali, Niger, Ciad, Sudan, Egitto, sino a Somalia e Kenya. Ma è soprattutto il collegamento tra Stato Islamico nel Sud Ovest libico e Boko Haram nel Nord Est nigeriano che preoccupa. Il 13 maggio i leader africani della regione hanno partecipato al Vertice con il Presidente Francese Hollande, unico occidentale. E’ stato molto alto l’allarme lanciato in tale occasione per quella che appare oramai come un saldatura tra Isis e Boko Haram, che già da tempo aveva dichiarato la sua affiliazione al Califfato.

 

L’Italia ha avuto negli ultimi tre anni ripetute “investiture” da parte dei nostri maggiori alleati atlantici, in particolare dagli Stati Uniti, per esercitare una sua vera leadership e per imprimere una svolta decisa al contributo che la Comunità internazionale deve offrire alla Libia. Lo slalom di dichiarazioni governative ha contribuito alla disomogeneità di valutazioni tra i principali protagonisti del processo di stabilizzazione in Libia, lasciando dubbi sul ruolo che effettivamente l’Italia intende esercitare. Lo scorso aprile, quattro giorni dopo il Ministro degli Esteri Gentiloni, il Ministro degli Esteri francese Ayrault e il tedesco Steinmeier hanno incontrato il premier designato Fayez al-Sarraj e i componenti del suo Consiglio presidenziale, per discutere soprattutto della sicurezza. Sarebbe stato opportuno forse che un tema di questa portata fosse affrontato congiuntamente dai Ministri dei principali Paesi Europei. Per parte sua l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea Federica Mogherini, venerdì ha preannunciato che proporrà di “allargare la missione Eunavfor Med alle acque libiche”, ma senza dare particolare urgenza alla cosa e subordinando sempre al Governo di Unità Nazionale e a nuove Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Vi è invece una urgenza inderogabile per azioni incisive nel contrasto in mare, nelle stesse acque libiche, al traffico dei migranti, sulla base di norme internazionali consolidate che lo consentono. Nato ed UE devono essere un tutt’uno nel collaborare con il Governo Serraj e ricostruire le Istituzioni civili e militari libiche: rendendo disponibile una collaborazione di intelligence e di sorveglianza marittima, non soltanto sulle Coste libiche ma in tutto il quadrante che si estende anche alla Tunisia e all’Egitto.

 

Dopo alcuni passaggi che sembravano rilanciare la leadership italiana sul dossier libico, da tempo auspicata dal Governo, la posizione di Roma si è ancora una volta aggrovigliata. La stampa internazionale ha persino sostenuto che l’Italia è “il Paese più pacifista d’Europa”: intendendo per pacifismo non l’intelligente opera di ricerca della pace attraverso l’affermazione dei propri valori, bensì come rinuncia a difendersi, nella speranza che ci sia sempre qualcun altro a intervenire per noi.

 

Vi è davvero qualcuno che possa immaginare “un’invasione militare della Libia da parte dell’Italia” come il Presidente del Consiglio ha ipotizzato per escluderla categoricamente? Chi aveva mai parlato di “invasione militare”? Si è sempre sostenuto che l’Italia è impegnata a lottare contro lo Stato Islamico nell’ambito della legalità internazionale, esercitando magari il diritto di legittima difesa previsto dall’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite invocato a più riprese dal Governo francese; facendo leva sulle alleanze con i principali interlocutori presenti in Libia. Francesi, Inglesi e Americani da più di un anno stanno tessendo accordi operativi con le forze anti-islamiste che controllano porzioni del territorio Libico. Sono questi i Paesi, insieme alle autorità Tunisine, Egiziane e dei Paesi del Golfo ad aver effettuato importanti operazioni di intelligence e di una “guerra segreta” che ha contrastato l’espansione dello Stato Islamico in Libia. L’Italia dispone delle risorse e delle leggi che consentono di essere parte di questo impegno internazionale.

 

La campagna anti Isis in Libia, come ha rivelato il New York Times, è destinata ad espandersi. Il Pentagono avrebbe proposto alla Casa Bianca attacchi aerei e di droni contro 30-40 obiettivi dello Stato Islamico in Libia, sin dal 22 febbraio scorso, e il ritardo nell’operatività di tale piano è stato suggerito unicamente dalla speranza che decollasse un Governo di Unità Nazionale.

 

Più il tempo passa senza che il Governo di Unità Nazionale assuma una completa capacità operativa nel contrasto allo Stato Islamico nel ristabilire almeno le condizioni minime della sicurezza nel Paese e alle frontiere, più si accresce la minaccia alla sicurezza dell’Italia: ultimamente aggravata dall’impressionante aumento dei flussi di migranti che le organizzazioni criminali attuano attraverso la Libia.

 

L’ “Institution  Building” è una priorità internazionale oltre che interna. Un ampio “Security Compact”, e in attuazione dell’Accordo di Skhirate, deve far leva su smobilizzazione, disarmo e reintegrazione delle Milizie, sul controllo dei confini, sul contrasto allo Stato Islamico.

E’ una strategia necessaria per i quattro principali paesi europei, gli Stati Uniti, la Turchia, i Paesi confinanti con Libia – Algeria, Tunisia, Niger, Ciad, Sudan ed Egitto – e i sei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo.

 

 

 

 

 

 

©2024 Giulio Terzi

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