Discorso “La crisi mediorientale e il ruolo dell’Iran”

GEOPOLITICA DEL MEDIORIENTE

 

“La crisi mediorientale e il ruolo dell’Iran”

Scuola di Pace – Boves, 16 febbraio 2017

 

 

  1. I) E’ straordinario quanto poco gli elettori americani e il mondo avessero compreso su cosa il nuovo Presidente americano intendeva realmente. Chi l’ha sostenuto si attendeva con ottimismo fideistico un grande e positivo rivolgimento. Quelli che si sono opposti a Trump temevano che caos e rovina si abbattessero sull’America e sull’Occidente. Entrambe le aspettative apparivano mere speculazioni sino al suo insediamento, il 20 Gennaio. Dall’Oval Office – con una raffica di Executive Orders – Trump ha subito iniziato a rivoluzionare sanità, energia, ambiente, immigrazione, finanza e banche, commercio e sicurezza internazionale. Dalle enunciazioni di principio, Trump e la sua Amministrazione sono passati ai fatti.

 

Il Presidente intende portare avanti il programma così come l’aveva annunciato, sia pure lasciando oscuri molti dettagli. Allo stesso tempo ha dimostrato di saper modificare improvvisamente – o per lo meno attenuare – le posizioni più drastiche. Nelle interviste dei primi giorni di presidenza ha addolcito il “negazionismo” dei cambiamenti climatici. Nell’incontro con il Primo Ministro britannico, ha dato una valutazione più positiva su utilità e ruolo della NATO, per la sicurezza internazionale e per la difesa dei Paesi Atlantici; pur senza mai cambiare di uno iota la sua incondizionata ammirazione e amicizia per Putin. Sul trasferimento dell’Ambasciata Americana a Gerusalemme, dato come immediato in campagna elettorale, i tempi si allungano. L’Amministrazione ha espresso una posizione critica ulteriori insediamenti israeliani nella West Bank. Su entrambi i punti- Ambasciata e insediamenti- Netanyahu ha fatto sponda, in una contesto surriscaldato dalle misure sull’immigrazione che riguardano sette Paesi musulmani.

 

La Casa Bianca ha reagito con fermezza al decimo test di missili iraniani con capacità nucleare. Essi violano di certo lo spirito, e probabilmente anche la lettera dell’accordo JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) firmato il 14 luglio 2015. Washington è ora in piena sintonia con Israele su un motivo di grave contrasto con Obama.

 

  1. II) Le ragioni di ottimismo generalmente evidenziate per l’”effetto Trump” riguardano anzitutto l’economia e le aspettative generate dal nuovo Presidente. C’è stato un balzo al di sopra dei ventimila punti nell’indice Dow Jones, negli utili record delle sei principali banche americane – aumentati di ben trentun miliardi di dollari nelle cinque settimane dopo le elezioni – nelle aspettative di consumatori e imprese per forti riduzioni fiscali, per i programmi infrastrutturali, per la deregolamentazione in tutti i mercati: finanza, petrolio, carbone, costruzioni, manifatture.

Per altro, restano riserve e preoccupazioni:

1) la nuova Presidenza pare una sorta di ibrido: “dirigista” quando interferisce pesantemente  su scelte imprenditoriali- a colpi di twitter – che dovrebbero essere lasciate libere, guidate dal mercato e non dalla Casa Bianca; quando condiziona anche sul piano personale i CEO’s delle grandi aziende, con il pur lodevole ma assai discusso proposito di promuovere l’occupazione e il “ buy american” senza  passare dall’approvazione del Congresso e dal rinegoziato degli Accordi commerciali;

2) un altro volto, “iperliberista”, fiscale e antiregolatorio che può tuttavia produrre contraccolpi imprevedibili sull’economia se accompagnato da improvvisazione ,insufficiente coerenza d’insieme, contraddizioni nell’enorme massa di misure con le quali Trump intende rivoluzionare l’economia statunitense e i rapporti economici mondiali;

3) l’Executive Order sull’immigrazione rappresenta– anche per la stampa Repubblicana come il Wall Street Journal e Fox- un inciampo da non ripetere. Si è aperto un contrasto con toni senza precedenti tra potere esecutivo e giudiziario. La Casa Bianca ha cercato di addossarne le responsabilità all’ Homeland Secretary, Gen.Kelly, per la verità non ancora insediato quando l’Executive Order è stato adottato.

Alcuni commentatori evidenziano le contrapposizioni tra i più influenti “uomini del Presidente”: da un lato le colonne dell’establishment Repubblicano, il Vice Presidente Mike Pence, il Chief of Staff Reince Priebus, lo Speaker della Camera dei Rappresentanti Paul Ryan, e il Senatore Mitch McConnell; dall’altro “gli agitatori”, Steve Bannon, ascoltatissimo “Consigliere per le politiche e le strategie” Peter Navarro, Presidente del Consiglio Nazionale per il commercio, Michael Flynn, Consigliere per la Sicurezza Nazionale; in mezzo i mediatori: la figlia Ivanka e suo marito Jared Kushner. Le rivalità attorno al Presidente non sono certo rare nella storia americana, più che in altre democrazie liberali. Ma possono dare esiti imprevedibili per una presidenza che vuole rivoluzionare la politica americana.

 

III) Vale la pena qualche constatazione sul contesto macroeconomico e geopolitico della presidenza Trump.

 

  1. Andamento macroeconomico:

* Se i prezzi cresceranno in risposta ad un aumento della domanda per consumi e per investimenti, aumenterà la pressione sulla Federal Reserve per una crescita dei tassi di interesse. Il dollaro si rafforzerebbe, proseguendo una corsa che ha innescato una polemica tra Washington e Berlino sulle responsabilità tedesche nel volere un euro debole per favorire il surplus commerciale tedesco. Il tema dell’export della Germania verso gli Usa -in attivo di circa sessanta miliardi – è molto delicato anche per l’Italia. Abbiamo con gli Stati Uniti un saldo attivo annuo di circa 11  miliardi di euro. Se il rapporto Euro/Dollaro è probabilmente sottovalutato per l’economia tedesca, è invece il contrario per l’Italia. Per i nostri esportatori l’Euro è sopravvalutato. L’uscita dall’euro consentirebbe-affermano gli antieuro – “svalutazioni competitive”. Ma i veri problemi che l’Italia non supererà solo con svalutazioni della moneta sono la produttività del lavoro e la competitività del suo sistema paese.

* Un dollaro forte -nonostante gli auspici della Casa Bianca- creerebbe difficoltà per i Paesi emergenti indebitati in dollari nell’onorare il proprio debito pubblico, anche se le ultime proiezioni di crescita annua sono per loro più alte di quanto venisse stimato in Dicembre: 4’7% anziché 4’1%. Un’instabilità finanziaria nei Paesi emergenti coinvolgerebbe facilmente America e Europa. Dopo due anni di condizioni favorevoli- purtroppo perse dai nostri ultimi due Governi- per invertire la tendenza in aumento del nostro debito, dollaro e tassi  d’interesse in crescita non sono buone notizie per l’Italia. Se poi l’Amministrazione Trump dovesse reagire al dollaro forte con barriere tariffarie e misure protezionistiche l’instabilità del mondiale l’economia si accentuerebbe.

* Il Presidente Trump ha lanciato sin dal suo insediamento la campagna per smantellare il quadro regolatorio di finanza, banche, ambiente, clima, industria petrolifera e carbonifera, manifatturiera, costruzioni, automobilistica, farmaceutica.

Particolarmente rilevante la soppressione di norme a protezione dei consumatori, dei clienti delle banche, dei piccoli investitori, stabiliti con il Dodd-Frank Act dopo la crisi dei “sub-prime mortgages” del 2007/2008, e il fallimento della Banca Lehman che aveva travolto la finanza mondiale e innescato la crisi dell’Eurozona. La deregolamentazione che si sta attuando riguarda quindi l’Europa, così come il resto del mondo. Il Dodd-Frank Act aveva creato la “Consumer Protection Agency”, regolamentato limiti nell’accensione di mutui e commercio dei derivati. La Securities and Exchange Commission-SEC- imponeva alle società petrolifere, in linea con impegni OCSE, di pubblicare le commissioni corrisposte nei contratti di sfruttamento delle risorse naturali. La norma viene cancellata con forti critiche per le conseguenze nella lotta alla corruzione. L’eliminazione dei limiti alla finanza selvaggia, rilevano molti, contrasta con gli impegni del “Candidato Trump” a “lottare contro la struttura globale dei poteri finanziari” e la “ macchina corrotta” di una Goldman Sachs amica di Hillary Clinton, per sostenere gli interessi della classe lavoratrice.

* Al vertice dell’Amministrazione Trump siedono almeno quattro figure chiave di Goldman Sachs: Steven Mnuchin Segretario al Tesoro, Gary Cohn Direttore del Consiglio Nazionale dell’Economia, Dina Powell “Senior Counsellor for economic initiatives”, e Steve Bannon , Chief Strategist e membro del Consiglio per la Sicurezza Nazionale. Un’altra decina di incarichi molto importanti sono stati affidati da Trump a finanzieri e petrolieri miliardari, fautori della più ampia deregolamentazione dei mercati e di tutto il sistema produttivo. I profitti per la grande finanza sono stati immediati: impennata record del Dow-Jones al disopra dei 20.000 punti; profitti per le sei principali Banche Usa di $31 Mld nelle sette settimane successive all’elezione del nuovo Presidente; aumento per le 63 principali istituzioni finanziarie Usa della capitalizzazione di borsa di $460 Mld, in meno di tre mesi.

* La rapidità con la quale l’Amministrazione sta riscrivendo le regole della finanza e del credito ha colto di sorpresa persino Wall Street. Appena lasciata Goldman Sachs, Gary Cohn si è insediato a capo del Consiglio Nazionale dell’Economia e si è subito messo a riscrivere norme che – prevedono le banche – moltiplicheranno i già elevatissimi profitti  grazie all’ abolizione,  dopo sei anni, della “Volcker– Rule” che separa l’attività speculativa dall’esercizio del credito, e del principio che i promotori finanziari devono  prima di ogni altra cosa operare nel migliore interesse dei loro clienti. Al diffondersi di queste notizie Venerdì 3 Febbraio le azioni di Goldman Sachs hanno battuto i precedenti record. In un solo giorno, venerdì 3 us, Morgan Stanley è cresciuta del 5% e Goldman del 4%. La partecipazione Usa alle Istituzioni multilaterali di concertazione bancaria, come Basilea e il Financial Stability Board, potrebbe venire condizionata da obiettivi imposti unilateralmente dalla nuova Amministrazione , che imporrebbe una revisione di accordi e garanzie in materia di capitalizzazione delle banche, assicurazione, derivati , rischi sistemici, gestione portafogli: accordi e garanzie che Trump e i suoi consiglieri considerano penalizzanti per la finanza e le banche americane, rispetto alle altre. Anche sotto questo profilo si preannuncia una situazione difficile per il sistema bancario europeo e italiano.

* Sul fronte della spesa, Trump ha un piano di investimenti pubblici di portata roosveltiana. Le infrastrutture dell’intero Paese, strade, ferrovie, edilizia pubblica, bisognose da decenni di interventi radicali, cambieranno volto. L’impegno è di riversarvi a medio termine più di un trilione di dollari. I beneficiari saranno i “blu collar” che aspettavano dagli anni novanta questa inversione di tendenza, e la generalità dei cittadini. E’ un mix sostenibile per la finanza pubblica americana e per quella globalizzata? La più grande economia del mondo può essere portata a livelli di disavanzo molto vicini a quelli, per fare un esempio, dell’Italia senza creare ulteriori distorsioni e crisi nella finanza globale? Di sicuro, lo stiamo già vedendo dai mercati, il dollaro si rafforzerà, l’attività delle multinazionali Usa e la concentrazione della raccolta e degli impieghi bancari tornerà a privilegiare nuovamente gli Usa. Rialzo dei tassi, rafforzamento del dollaro, differenziali di crescita renderanno decisamente  più onerosa la copertura del nostro debito pubblico, e estremamente meno agevole il consolidamento del nostro sistema bancario.

* Nella visione marcatamente conservatrice che sembra propria alla nuova amministrazione repubblicana‎, si inserisce, una componente “liberal”: creazione di posti di lavoro attraverso lo strumento tradizionale della spesa pubblica, soprattutto quella per infrastrutture. Mentre preoccupa moltissimi americani, nonostante le mezze smentite, la possibile privatizzazione di Medicare, l’assistenza medica di base, e la cancellazione senza contestuale alternativa della riforma sanitaria di Obama che aveva dato copertura assicurativa a più di venti milioni di americani che ne erano privi.

*   In ogni caso, l’attenzione di Trump al consenso della classe media, soprattutto a quella di estrazione operaia è dimostrata anche dalla anticipazioni sulla politica migratoria. La minaccia brandita in campagna elettorale di espellere 11 milioni di immigrati illegali si è  ridimensionata nell’annuncio di voler  rimandare ai Paesi di origine 2-3 milioni di immigrati illegali con precedenti penali o illeciti amministrativi. In realtà il numero sarebbe del tutto esagerato, perché si tratterebbe – per chi ha commesso illeciti – di una cifra assai al disotto del milione di persone, probabilmente attorno a 300.000. La finalità è soprattutto politica. Da un lato vorrebbe rassicurare gli operai della “rust belt” che i nuovi posti di lavoro creati dal programma di infrastrutture non andranno agli immigrati; dall’altro ribadisce “tolleranza zero” nella lotta alla criminalità e al terrorismo. L’Executive Order sul blocco degli ingressi da sette paesi musulmani appartiene alla stessa logica.

 

  1. Sul contesto geopolitico:

Come per l’economia, incognite considerevoli riguardano la geopolitica. In positivo nelle prese di posizione e nei contatti di queste prime settimane si intravvede una visione assertiva dell’ interesse nazionale con una ritrovata consapevolezza  dell’utilità- in un mondo dilaniato dal terrorismo e minato dall’uso della forza e dal fatto compiuto-  di esercitare la deterrenza in modi e toni diversi dalla precedente Amministrazione. Il Segretario di Stato Tillerson, quello alla Difesa Mattis, il Direttore della Cia, Pompeo, nelle loro audizioni in Senato, e lo stesso Presidente quando ha incontrato Theresa May, hanno chiarito aspetti che avevano destato molte preoccupazioni:

  • Primo: l’Alleanza Atlantica continua ad avere importanza fondamentale nella Difesa e sicurezza dei paesi ce ne sono parte.
  • Secondo: nel rapporto con la Russia l’esigenza immediata è di riportare il clima e le relazioni tra Washington e Mosca a una vera collaborazione. Al tempo stesso vi è consapevolezza che “alcuni interessi coincidono”, come nella lotta al terrorismo internazionale; ma che per altri versi la Russia è un antagonista che espande i propri spazi di influenza anche con la forza e mette in pericolo interessi americani. Mosca rappresenta quindi anche una “minaccia”. Non sarà facile, sul capitolo Russia, trovare un punto di equilibrio tra le diverse voci interne all’Amministrazione. Sarà ancor meno facile per i partner europei. A Parigi, Berlino e altre capitali europee non ci si spiega la decisione di Trump – tra le molte possibili sulle sanzioni alla Russia- di eliminato immediatamente le restrizioni proprio nelle tecnologie “Cyber” sulle quali è aperta un’inchiesta per le gravi interferenze russe nelle elezioni Usa; mentre forti sono i timori di analoghe interferenze nelle elezioni francesi e tedesche. Il Presidente del “Senate Select Committee on Intelligence” Richard Burr e il Vice Presidente Mark Warner hanno avviato l’indagine congressuale sottratta, per sua natura, ai poteri dell’Esecutivo.
  • Terzo: nel Pacifico, la cancellazione del TPP –Trans Pacific Partnership- apre un vuoto geopolitico per l’America e una prospettiva di integrazione economica regionale nella quale la Cina ha immediatamente indicato di volersi inserire, dopo aver da tempo lanciato la sua Asian Infrastructure Investment Bank, e iniziative di integrazione economica regionale guidate da Pechino. La militarizzazione degli isolotti nel Mar del Cina confligge con la sicurezza degli altri Paesi rivieraschi, con la libertà di navigazione, e con gli impegni sottoscritti dagli Usa con Giappone, Filippine, Taiwan, Corea del Sud, oltre che con  i rapporti di Washington con  Indonesia, Vietnam, Brunei, Singapore e tutto il Sud est asiatico. La tempestiva missione del Segretario alla Difesa, Mattis è stata una buona mossa, intesa a rassicurare gli alleati e a dare a Pechino il messaggio che gli Usa continueranno a essere impegnati nel Pacifico.

 

  1. Il Medio Oriente torna al centro della politica estera americana.

Il 2016 sarà ricordato come ‎l’anno che segna una nuova “rivoluzione” per la politica e l’economia mondiale? Un’altra “rivoluzione” dopo quella delle Primavere Arabe che avevano rilanciato l’Islam politico e fondamentalista?

 

1)  Obama intendeva essere protagonista di una grande svolta: per trasformare la percezione che una parte del mondo, in particolare quello musulmano, aveva dell’America. Voleva interpretare un’America dialogante, antimilitarista, desiderosa di aprirsi a tutti: all’Islam, alla Russia, e persino all’Iran, l’interlocutore più ostile nei confronti del  “Grande Satana” americano.

Per molti la “rivoluzione di Trump” appare indifferente alla affermazione dei valori dell’Occidente, della tutela dei diritti umani e della promozione dello Stato di Diritto. Essa non solo parrebbe voler restare estranea ai conflitti innescati nel cuore dell’Europa dalla ostentazione russa della forza e della politica del fatto compiuto; nell’ Oval Office si  tende addirittura a negarla . Rischia di restare senza conseguenze il genocidio di un intero popolo – quello siriano – eliminato e cacciato dalla sua terra perché si oppone a una dittatura sanguinaria al potere da trent’anni; tenuta in sella da alleati complici di Assad nel commettere crimini contro l’umanità denunciati da risoluzioni francesi al Consiglio di Sicurezza, bloccate sistematicamente dalla Russia.

 

2) E’ condivisibile luogo comune che sia stata la riluttanza di Obama a impegnarsi in Medio Oriente, dopo gli errori commessi da Bush in Iraq nel 2003, a determinare lo sprofondamento della Siria nella più grave crisi geopolitica per l’Europa e il Mediterraneo dal 1945. La rivolta inizialmente pacifica del popolo siriano si trasformava- come sin dall’inizio volevano Assad e l’Iran- in un conflitto dove l’opposizione non islamista, abbandonata a sé stessa, veniva travolta dai Jihadisti di Al Nusra  e poi, dalla seconda metà del 2012, dallo Stato Islamico. Per l’Amministrazione Obama il Medio Oriente non doveva continuare a essere la massima priorità della politica estera americana, come era stato da  inizio anni ‘90. Non tutti erano d’accordo. Non lo erano, con diverse sfumature, il Segretario di Stato, il Segretario alla Difesa , il Direttore della CIA. Il disimpegno tentato da Obama comportava il ritiro del contingente americano dall’Iraq nel Dicembre 2011, salvo doverlo poi reintegrare dopo la conquista di Mosul da parte dello Stato Islamico.

 

3) Washington puntava piuttosto le sue carte sul “riformismo” – virtuale, come sappiamo – della teocrazia iraniana; nella convinzione  che una volta firmato l’accordo nucleare e rimosse gran parte delle sanzioni l’Iran avrebbe smesso di sostenere il terrorismo internazionale, e che avrebbe cessato interventi militari diretti e/o tramite “proxy” sciiti in Iraq, Yemen, e altri Paesi del Golfo. Verso Israele gli anni di Obama alla Casa Bianca e di Netanyhau a Gerusalemme, erano stati di grave incomprensione reciproca : sull’Iran; e sul processo di pace con i Palestinesi. Anche senza riandare a quanto accaduto negli ultimi otto anni, lo scontro per quello che può essere definito ”l’ultimo atto” della Presidenza Obama in Medio Oriente – la Risoluzione CdS n. 2334 del 23/12/2016 contro gli insediamenti nella West Bank – ha motivato ulteriormente le aspettative di Israele verso la nuova Presidenza.

 

In Medio Oriente e nel Mediterraneo la Storia non ha però reso giustizia al discorso pronunziato da Obama al Cairo il 4 Giugno 2009:

 

”Io ho una fiducia irremovibile – proclamò il Presidente americano in quella occasione- che tutti i popoli aspirino ardentemente a alcune cose: la possibilità di parlare , di dire quello che la gente pensa, e di contare nelle decisioni dei governi; la fiducia nello Stato di Diritto e in un’equa amministrazione della giustizia; in un Governo che sia trasparente e non rubi al popolo; nella libertà di vivere la propria vita come si preferisce. Queste non sono solo idee Americane; sono Diritti Umani. E questo è il perché noi li sosterremo dovunque”.

 

Ancora una volta, il terremoto partì dall’Iran. L’’”Onda Verde” di rivolta contro l’elezione di Ahmadineajad fu– una settimana esatta dopo il discorso del Cairo – la prima  vittima dei principi enunciati da Obama: con decisione, ma senza una convincente strategia . L’America non poteva illudersi che bastasse una impostazione declaratoria in politica estera- e ne vedremo in prosieguo molte altre manifestazioni- ma priva di strategie e concrete capacità dissuasive; disposta se necessario a ricorrere a sanzioni e in ultima istanza all’uso della forza, com’era avvenuto contro Milosevic nelle guerre balcaniche. In Iran all’indomani dell’elezione subito contestata dal candidato riformista Mousavi , una folla enorme scendeva in strada, inizialmente in modo del tutto pacifico. Con tragica anticipazione di quanto sarebbe accaduto due anni dopo in Siria la polizia del regime, le squadre Basij e Pasdaran iniziarono subito a colpire e massacrare. L’immagine di Neda Agha- Soltan morente in strada resterà sempre nei nostri occhi. Quel Giugno 2009 più di tre milioni di iraniani manifestarono contro i Mullah .Al Jazeera lo definiva “ il più grande sollevamento dai tempi della rivoluzione iraniana”. La rivolta si estese all’intero paese e venne brutalmente repressa. Migliaia di arresti, torture, eliminazioni sommarie, impiccagioni dilaniarono l’Iran senza reazioni apprezzabili da parte dei governi occidentali, distratti dalla crisi finanziaria e dalla speranza di riannodare la trattativa nucleare con Teheran.

 

4) Diciotto mesi dopo l’”Onda Verde” iraniana, il 17 dicembre 2010, Mohamed Bouazizi si dava fuoco per protestare contro la distruzione del suo carretto di verdura da parte di una poliziotta, a Sidi Bouzid, in Tunisia. Iniziava così la spirale delle Primavere Arabe. La caduta di regimi corrotti e violenti sembrava inizialmente avviata verso la formazione di costituzioni democratiche e ragionevolmente pluraliste. Bastarono pochi mesi perché le Primavere Arabe si spegnessero nella rovina delle preesistenti strutture statuali e si trasformassero  in un netto rilancio dell’Islam politico. Gli interessi e la storia degli Stati Uniti e dei Paesi europei sono intimamente  legati  a quelli delle comunità e  dei Paesi musulmani. Vengono definiti comunemente “Islamisti”, aderenti a una concezione che vede nell’Islam politico e nella Sharia la forma irrinunciabile delle società musulmane , i componenti di una quota significativa, anche se minoritaria, di quella vastaparte di popolazione mondiale che si riconosce nell’Islam.  Ma si tratta di una minoranza molto determinata. A questa minoranza appartengono milioni di persone che, pur non avendo aderito allo Stato Islamico o altre organizzazioni jihadiste, credono nella ricostituzione del Califfato – finito nel 1924 con la disgregazione dell’impero ottomano – e si sentono legittimate a sostenere un Emirato Islamico guidato da “emiri e Mujahedeen nel cammino verso Dio”.

 

5) Gli strateghi del terrore e i loro seguaci rendono sempre più difficile integrare il mondo musulmano nella modernità. Già in una situazione diversa, non tormentata da fondamentalisti e terrorismo, sarebbe difficile far convivere la cultura moderna con la condizione della donna secondo la legge coranica, con il senso di esclusione avvertito da comunità storicamente emarginate, con un sistema educativo antiquato, e una demografia penalizzante per lo sviluppo sostenibile. Ma le barriere che gli islamisti pongono tra sé stessi e “gli altri” appaiono insuperabili. I loro Paesi erano tradizionalmente terreno di convivenza tra culture e mondi diversi, di interscambi economici, di realtà interetniche. Gli islamisti mirano a azzerare questa fondamentale eredità della civilizzazione.

 

Sono queste le preoccupazioni che mergono tra diversi membri della nuova Amministrazione americana nelle loro analisi e prese di posizione sui rapporti con l’Islam politico. Preoccupazioni analoghe si stanno diffondendo in Europa, e sono destinate a contare molto nelle elezioni dei prossimi mesi.

Il quadro complessivo in Medio Oriente si è radicalmente trasformato- negli ultimi quattro anni – con la guerra siriana, il rapidissimo riposizionamento di Russia, Turchia, Israele,  e soprattutto dell’Iran: un periodo che ha confermato il vuoto dell’Occidente e l’assenza di una sua ferma volontà politica a sostenere in quell’area geopolitica gli interessi nazionali dei popoli europei e dell’America.

 

6) Le riconquiste di Aleppo, Mosul e tra non molto di Raqqa, vedono schierate contro lo Stato Islamico coalizioni molto diverse, con partecipanti tra loro antagonisti e in alcuni casi nemici. Ad Aleppo Est sono state le Forze dalla ribellione siriana, prevalentemente non Jihadiste e comunque nemiche dello Stato Islamico, a resistere per cinque anni al Regime siriano. La ripresa di Aleppo è avvenuta solo dopo un’offensiva massiccia dell’Aviazione Russa, dei Guardiani della Rivoluzione Iraniana- IRGC- e delle Milizie Sciite inquadrate dall’Iran e provenienti da Libano, Iraq e Afghanistan. A Mosul, l’armata irachena è stata sostenuta dai Peshmerga Curdi e da Milizie Sciite comandate da Ufficiali Iraniani, con l’appoggio aereo della coalizione internazionale, a guida  americana.

Iraq e Siria sono teatro di guerre che si succedono da più di un secolo, anche se abbiamo l’impressione che i conflitti in atto siano, come in effetti sono, di un’altra natura. Siria e Iraq inglobano mosaici complessi, governati per decenni da regimi laico-baathisti e confessionali. Sunniti e Sciiti trovano nella regione il loro principale terreno di scontro.

A Mossul nel giugno 2014 lo Stato Islamico ha proclamato il Califfato Universale e l’abolizione delle frontiere tracciate con gli accordi Sykes-Picot un secolo prima. Emblematico il video diffuso per l’occasione sul web dello Stato Islamico , con un bulldozer che distruggeva il posto di frontiera tra Iraq e Siria, riunificando le terre arabe e la casa dell’Islam. Il significato: spazzare via l’ignominia della dominazione coloniale e di Stati arabi inventati per far comodo alle potenze europee. In effetti Aleppo e Mosul sono dal punto di vista culturale, commerciale e religioso più vicine tra loro di quanto siano alle rispettive capitali.

Alla caduta di Saddam Hussein si era ipotizzata la ripartizione dell’ Iraq in tre principali entità, per compensare i Curdi e separare sin dove possibile la maggioranza Sciita dalla minoranza Sunnita. In diverse fasi del conflitto siriano l’idea di una separazione tra sunniti, alawiti e curdi si è ugualmente riaffacciata. Attualmente queste soluzioni sembrano meno attuali. La sconfitta in itinere del Califfato di Al-Baghdadi tende a risuscitare le entità statuali generate dgli accordi Sykes-Picot, magari con modelli meno centralistici, e con autonomie rafforzate.

 

7) Pur se le frontiere dell’Iraq e della Siria restassero immutate il nuovo ruolo giocato dagli attori regionali, l’ingresso sulla scena della Russia, e l’allontanamento dell’America trasformano  nettamente il contesto geopolitico:

  • la Turchia rivendica le citta irachene di Mosul, Tal-Afar, Kirkuk in virtù del passato ottomano, e non ha nessun interesse a una riconfigurazione del territorio iracheno che la nascita di uno Stato Curdo;
  • la scomparsa dell’Isis accrescela contrapposizione tra il Kurdistan autonomo di Massoud Barzani e Bagdad sul “territorio contestato” di Tal-Afar e Kirkuk, e complicare anche la condizione delle altre Comunità presenti, Cristiani, Yazidi, Shabaks, Torkmeni Sciiti e Sunniti. Barzani sostenuto dalla Turchia è a favore di una gestione Sunnita autonoma di Mossul e della sua provincia (Ninive). In tal modo la regione autonoma del Kurdistan potrebbe far leva sulle altre Comunità Arabo-Sunnite della Regione per contrastare le velleità centralistiche di un Governo iracheno dominato dalla componente Sciita. Quanto sostegno i Curdi iracheni possano avere da Ankara e Washington, che non sono tra loro in questo momento in rapporti idilliaci, è tutto da vedere;
  • le regioni del Kurdistan, nel loro insieme, sono fragili politicamente e economicamente, esposte alle ingerenze di Teheran e di Bagdad che strumentalizzano il PKK- entità terrorista, militarmente potente, considerata da Ankara persino peggiore dell’Isis- per suscitare rivalità interne , in chiave anti-turca , anti-occidentale, e con il leader curdo-iracheno Massoud Barzani;
  • nel Kurdistan siriano, la contiguità tra politica locale e PKK è accentuata, e questa strumentalizzata da Damasco che dopo aver lasciato le redini lunghe ai Curdo-Siriani nella lotta contro l’Isis, vuole riprendere il pieno controllo di tutto il territorio curdo-siriano;
  • Erdogan nell’estate 2016 ha effettuato una virata spettacolare verso la Russia di Putin. Ha sospeso l’aiuto ai ribelli siriani di Aleppo Est, abbandonandoli ai bombardamenti russi e all’offensiva del Regime sostento dalle Milizie Sciite e Iraniane. Erdogan insiste da tempo per la creazione di una “Safe Area”- una zona sicura e internazionalmente garantita- di circa cinquemila chilometri quadrati nel territorio siriano come “cuscinetto” che consenta di accogliere gli sfollati siriani senza che essi debbano riversarsi in Turchia, e per consentire una presenza diretta turca che eviti la riunificazione dei territori sotto controllo curdo;
  • la Russia grazie al suo spettacolare spiegamento militare in Siria, decisivo per condizionare il quadro politico del Paese e dell’intera Regione, ha interesse a far allontanare Ankara dalla Nato. La volontà di Trump di fare rapidamente dei “deal” con Putin potrebbe produrre proprio questo: sarebbe un risultato pessimo per l’Europa in particolare per Paesi come l’Italia che devono poter contare sull’alleanza con la Turchia, nella Nato, per la sicurezza occidentale nel Mediterraneo Orientale e Centrale, per il contrasto al terrorismo, i flussi migratori, e la stabilità dei Paesi rivieraschi. Tutti obiettivi per i quali interessi occidentali e interessi russi non coincidono, neppure sulla lotta al terrorismo , nelle ben diverse esperienze e finalità dell’antiterrorismo russo rispetto a quelle occidentali. E’ anche tutto da vedere se un avvicinamento incondizionato tra Turchia e Russia convenga a Israele. E’ vero che i rapporti tra Netanyhau e Putin sono eccellenti, e Gerusalemme sembra aver sviluppato con Mosca un’efficace coordinamento operativo nelle operazioni aeree israeliane contro la fornitura da parte dell’Iran di armi e sostegno logistico alle Milizie Hezbollah in Siria. Tuttavia, il controllo dello spazio aereo siriano e la difesa anti-aerea iraniana, sono garantiti dai Missili anti-aerei S300 e S400 forniti da Putin ad Assad e Khamenei. E’ chiaro quindi che il principale cardine sul quale ruota una componente strategica della sicurezza dei due regimi, Siriano e Iraniano, è essenzialmente in mani russe. Trattandosi di armamenti molto sofisticati, connessi alla dimensione cibernetica della sicurezza, sarebbe sorprendente se anche in tale dimensione la collaborazione tra Mosca, Damasco e Teheran non fosse già estremamente avanzata;
  • assai meno pubblicizzati i grandi risultati militari e politici ottenuti dall’Iran nella regione. Tali risultati sono stati mantenuti decisamente sottotono, se non per alcuni momenti di auto-compiacimento per il ruolo dei generali iraniani in Siria. La prudenza iraniana contrasta con la visibilità mediatica voluta da Putin alla proiezione del proprio dispositivo militare e alla creazione di nuove basi operative in Siria – quella navale di Tartous e quella aereonautica di Hmeimim – e ai comandi congiunti russi  con iracheni e iraniani;
  • l’Iran è il grande vincitore a livello regionale. Ha dato prova di abilità strategica nel giocare la carta dello Stato Islamico per ottenere copertura aerea americana e francese alle operazioni delle proprie milizie in Iraq e in Siria. Teheran ha saputo utilizzare in chiave di egemonica la guerra in Siria per assicurare anche in futuro la presenza in tale paese di forze al suo comando (le “Forze di difesa nazionale” formate da milizie Sciite). Teheran replica, in forma ingigantita, anche fuori dai confini libanesi il “modello Hezbollah” per operazioni in Siria, Iraq, Yemen e forse anche in altri teatri;
  • l’influenza iraniana in Libano è ulteriormente aumentata con la nomina di un alleato di Teheran, il Generale cristiano, Michel Aoun alla Presidenza della Repubblica. La posizione dominante del partito Sciita viene oramai percepita dalla popolazione Cristiana libanese come una barriera contro il Jiahdismo sunnita, e anche questo è un risultato della drammatizzazione –voluta da Teheran oltre che da Asad- della guerra civile siriana e della repressione della rivolta popolare che ha avuto sin dall’inizio non soltanto il sostegno, ma l’istigazione iraniana;
  • l’Iran ha ottenuto, grazie alla crisi siriana, un corridoio per l’accesso al Mediterraneo attraverso il controllo diretto e indiretto di territorio in Iraq, Siria, Libano, e una rete di “Proxy” militari e politici. In dicembre è stata annunciata la creazione di una base militare russo-iraniana in Siria. L’accesso al Mediterraneo, oltre che per la Russia, è essenziale all’’Iran per motivi di sicurezza – forniture di armi agli Hezbollah in Libano via mare, anziché via terra più facilmente intercettabili da Israele – e per l’esportazione di petrolio e gas verso il mercato europeo;
  • il grande rivale dell’Iran, l’Arabia Saudita, ha subito contraccolpi negativi dall’espansione iraniana. I suoi alleati in Siria sono stati sconfitti militarmente ed è tutto da vedere se riusciranno ad ottenere una sia pur larvata presenza negli assetti istituzionali della nuova Siria, se mai ve ne sarà una. La guerra in Yemen, dopo due anni vede i ribelli Sciiti “Proxy di Teheran” sempre molto attivi, e sfidare persino navi americane e appartenenti ai Paesi del Golfo;
  • alcuni osservatori rilevano come l’Iran sia praticamente l’unico paese musulmano della regione ad aver saputo combinare “soft” e “hard power”, stringere alleanze senza perdere di vista i propri interessi, mobilitare gli Sciiti e intervenire sia direttamente che attraverso i propri alleati. Il grande handicap per l’Iran è quello che invece viene considerato un grande vantaggio per la Russia: l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca.

 

  1. IV) La “questione Iran”.

L’innamoramento cieco dell’Occidente dopo l’accordo nucleare –JCPOA- per il regime iraniano è un capolavoro di autolesionismo. Un autogol valoriale (a Teheran continuano a essere calpestati i diritti umani), geopolitico (così aumentano le tensioni con gli Usa di Trump), economico (non c’è nessun Eldorado lì per le nostre aziende).

–    Anche in Italia è stata accreditata la fiaba di un Eldorado iraniano per le nostre aziende mentre una stampa compiacente si è concentrata sulle prospettive economiche del mercato iraniano, che sono da prendere con ben maggiore cautela di quanto si voglia far credere.

– Non si è mai alzata nessuna voce, in seno al Governo, contro le tremila impiccagioni avvenute durante la “presidenza riformista” di Rouhani. Abbiamo fatto finta di non sentire gli incitamenti continui dei Mullah alla distruzione di Israele, alla loro violenta propaganda antisemita e antioccidentale. Sotto un’oscura coltre abbiamo – o meglio “hanno”- tenuto nascoste le  connivenze, il sostegno finanziario e logistico di Teheran, anche attraverso gli Hezbollah,  a al-Qaeda in Yemen, Iraq, Siria, Afghanistan. Sembra – e le indiscrezioni trapelate sulla stampa estera non risulterebbero smentite- che Roma si sia avventurata in inspiegabili quanto pericolose “collaborazioni di intelligence” con personalità iraniane direttamente coinvolte nel sostegno  al terrorismo internazionale e per questo sanzionate dall’Onu.

–    Diversamente da altri Governi  europei, mai una parola ferma è stata spesa per i crimini contro l’umanità perpetrati dalle forze filo-iraniane in Siria  in sostegno a Assad: persino quando la Francia aveva cercato di ottenere una condanna – bloccata dal veto russo-del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, di cui l’Italia fa per un anno parte, ci siamo ben guardati dal pronunciarci. Il sipario sull’ultimo atto di questa rappresentazione di dissimulazioni e stratagemmi si sta rapidamente alzando. Chi rischia di farne le spese sono proprio le aziende che avevano creduto – o trovato conveniente comunque credere perché “coperte” da crediti e garanzie governative finanziate alla fine dal contribuente italiano – nella miriade di dichiarazioni, conferenze promozionali, incontri a tutti i livelli promossi nel nostro Paese. Non che non vi siano stati appelli autorevoli e insistenti alla prudenza.

–    Lo scorso settembre veniva pubblicata una  “Lettera aperta” di un gruppo di Deputati e Senatori al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio e al Ministro degli Esteri. La lettera fu oggetto anche di una conferenza stampa alla Camera dei Deputati da parte dei parlamentari che l’avevano sottoscritta. Diverse interrogazioni parlamentari, come la lettera in questione, sono rimaste avvolte dall’ assoluto silenzio. Tutto questo avveniva quando ancora molti in Italia davano per sicura la vittoria di Hillary Clinton e confidavano, sbagliando anche su questo punto, che la linea obamiana di accondiscendenza verso l’Iran sarebbe proseguita in ogni caso con un nuovo Presidente alla Casa Bianca.

–    Neppure l’insediamento di Donald Trump ha prodotto da noi le riflessioni che avrebbero dovuto essere suscitate dalle dichiarazioni del National Security Adviser  Michael Flynn, dopo l’ennesimo test iraniano di missili  a capacità nucleare, di domenica 29 Gennaio., in violazione delle Risoluzioni delle Nazioni Unite. Ha detto Flynn: ”Oggi noi avvertiamo formalmente – we are officially putting Iran on notice- che il test missilistico è assolutamente inaccettabile”. Il National Security Adviser di Trump aveva in precedenza bollato l’accordo nucleare sottoscritto da Obama come “debole e inefficace… Invece di mostrare gratitudine agli Stati Uniti per questi accordi l’Iran si sente ora incoraggiato”. Ancor più esplicita la nuova Rappresentante Permanente americana all’Onu: “Gli Stati Uniti non sono ingenui. Non staremo con le mani in mano. Chiederemo che ce ne rendano conto, come avevamo anticipato, e ci vedrete agire di conseguenza”.

La nostra cieca corsa all’Eldorado iraniano che non c’è può diventare un “irritant” nelle nostre relazioni con Washington. Non ne abbiamo proprio bisogno. Occorre spiegare l’immensa diversità degli interessi strategici, di sicurezza, politici ed economici con l’America, rispetto a quelli che abbiamo con l’Iran di Khamenei e Rouhani?

–    E’ opportuno sottolineare   soprattutto quattro pesanti incognite che dovrebbero invece essere determinanti per le scelte aziendali:

1) lo scorso giugno la Financial Action Task Force ha annunciato la propria decisione di mantenere l’Iran nella lista nera dei Paesi che preoccupano per transazioni finanziarie illecite e finanziamento del terrorismo internazionale;

2) mentre le istituzioni finanziarie iraniane restano escluse dal sistema finanziario statunitense, il rischio di sanzioni finanziarie e multe per le violazioni da parte di Banche internazionali si aggrava. E’ da ricordare che dal 2009 le Banche internazionali sono state oggetto di oltre 15 miliardi di dollari di multe per violazione delle sanzioni americane contro l’Iran anche per casi riguardanti un inconsapevole coinvolgimento nel riciclaggio di denaro originato dall’Iran;

3) aumenta il rischio di accresciute sanzioni economiche. Il mutato clima a Washington e le valutazioni della AIEA (Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica), su recenti comportamenti iraniani che configurerebbero violazioni dell’Accordo nucleare nella produzione di acqua pesante, possono riflettersi sulle imprese straniere. Dopo gli esperimenti missilistici del 29 gennaio il congresso americano ha immediatamente ampliato le sanzioni contro l’Iran;

4) I Pasdaran-Islamic Revolutionary Guard Corps (IRGC)- sono colpiti dalla normativa americana e internazionale antiterrorismo. Le società estere che operano in Iran rischiano di essere coinvolte in affari con società di comodo appartenenti all’IRGC e di essere poi oggetto di misure sanzionatorie.

 

In un’interessante conferenza organizzata a Berlino la settimana scorsa dalla Camera di Commercio Germania-Iran ho potuto constatare un netto cambiamento di clima sui rapporti d’affari delle aziende tedesche in Iran. Non solo per la situazione generale che riguarda il Paese e le crescenti preoccupazioni che le sue ambizioni regionali aggravino conflittualità, settarismo religioso, e ingigantiscano la minaccia terroristica. Gli imprenditori tedeschi si stanno anche rendendo conto dell’arretratezza e inaffidabilità di quel sistema bancario, del rischio di essere esposti a contatti sanzionabili con le circa duecento “entità designate” iraniane che sono inserite sulla lista –OFAC, SDN’s- del Tesoro americano, del dilagante problema della corruzione e dell’assenza di garanzie e tutele legali per gli operatori stranieri, in un universo anni luce distante da un compiuto Stato di diritto rispettoso dei diritti umani e delle libertà fondamentali.

 

 

 

 

 

©2024 Giulio Terzi

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