Intervista S.E. Giulio Terzi Di Sant’agata Ambasciatore, Gia’ Ministro per gli Affari Esteri

Fonte: Italia Post – 20 Luglio 2014

Ambasciatore, quando e perché Lei ha iniziato la carriera diplomatica?
Le relazioni internazionali mi hanno affascinato sin dai tempi del Liceo: nei primi anni sessanta, il mondo studentesco era ideologicamente e politicamente diviso sulle linee di frattura tra Est e Ovest, i valori atlantici contrapposti a quelli del “socialismo in un solo paese”, e si discuteva molto di tutti i problemi legati alla decolonizzazione di Africa ed Asia. A Giurisprudenza pensavo inizialmente di formarmi come avvocato internazionalista, ma una borsa di studio della Farnesina mi stimolo nel partecipare al Concorso Diplomatico. E’ stato l’inizio di una storia professionale durante la quale ho avuto il privilegio di lavorare con personalità di spicco della nostra Diplomazia, come Corrado Orlandi Contucci, Franco Malfatti, Paolo Fulci, Umberto Vattani. Ma fu uno zio, al quale mia madre era molto legata, a darmi un esempio prezioso: Renato Bova Scoppa, un diplomatico di sconfinati interessi e curiosità culturali, di una passione unica per la Carriera, e di una fedeltà assoluta al Paese, che aveva servito, ancor prima di entrare in diplomazia, da valoroso ufficiale durante la I guerra mondiale. Come Capo Missione si era trovato al centro di vicende estremamente difficili: a Ginevra, negli anni dei Fascismo, dopo le sanzioni comminate all’Italia dalla Società delle Nazioni per la vicenda etiopica; a Bucarest, quando era riuscito a convincere Mihai Antonescu a premere su Mussolini per concordare una pace separata dalla Germania; alle Nazioni Unite, quando aveva lavorato per l’ingresso dell’Italia nell’ONU dopo aver ottenuto il necessario e assai problematico assenso Russo. Renato pensava, parlava, scriveva con un’eleganza dialettica tutta sua, e con apertura nei confronti di interlocutori da lui anche assai distanti politicamente come i leaders della prima Russia bolscevica, con i quali era stato in stretti rapporti. Rileggere oggi suoi libri come “Russia Rossa”, “Dialogo con due dittatori”, “la Pace impossibile”, o alcuni dei suoi numerosissimi saggi, dà la misura della qualità di una tradizione diplomatica che ha tenuto alto il ruolo e il prestigio del nostro Paese anche negli anni più dolorosi della nostra storia.

In qualche momento, ha avuto la sensazione di “poter cambiare il mondo”? C’è qualche decisione che ha preso da Ambasciatore o da Ministro che a suo avviso ha inciso più di altre nella vita della Nazione…?
Viviamo in un mondo di quasi di nove miliardi di persone, in cui 193 Stati membri dell’ONU devono affrontare le “sfide planetarie” del clima, della carenza di risorse naturali, di un modello di crescita non più sostenibile, dei conflitti settari. La necessità di cambiare il pianeta per garantire la sopravvivenza di un ecosistema fragile e compromesso, e l’urgenza di trasformare i conflitti in pace duratura e generalizzata, dovrebbero essere una priorità per tutti. Purtroppo non è così, perché gruppi di pressione, interessi settoriali e potentati politici dettano l’agenda a Governi e Parlamenti, i quali ben difficilmente si impegnano per raggiungere obiettivi di lungo periodo in grado di avere ricadute positive anche al di fuori dei propri confini. Ma la cultura e il particolare posizionamento geopolitico dell’Italia rendono possibile coniugare i legittimi interessi del nostro Paese con un intervento per tentare di risolvere i fattori di crisi che ho menzionato. Per quanto riguarda la mia azione di governo, da uomo dello Stato non ho mai avuto la percezione di poter “cambiare il mondo”, quanto piuttosto di essere parte di un team – quello della Pubblica Amministrazione – costantemente impegnato a “fare bene” e a “esportare” i valori “alti” del nostro Paese. Vorrei menzionare a tal proposito la lunga battaglia italiana alle Nazioni Unite per la riforma del Consiglio di Sicurezza, impostata e guidata con successo dall’Ambasciatore Paolo Fulci per tutti gli anni ’90 e che ho avuto il piacere di proseguire da Ambasciatore all’Onu e poi da Ministro; l’attenzione alla promozione dei diritti umani e alla libertà religiosa e di pensiero; la lotta contro le mutilazioni genitali femminili e contro la pena di morte. Anche il delicato presidio operato a favore delle nostre aziende nella “realtà liquida” del post Primavere Arabe ha avuto il suo peso, come pure l’imponente organizzazione dell’Anno della Cultura Italiana in USA, con oltre 180 eventi per promuovere il made in Italy, nella scia delle celebrazioni altrettanto riuscite per il 150° dell’Unità d’Italia, organizzate in molti paesi del mondo grazie al lavoro instancabile delle nostre Ambasciate. Sul tema della sicurezza, il Vertice Nato di Chicago sull’Afghanistan e il contributo alla risoluzione della crisi di Gaza nel 2012, purtroppo riesplosa drammaticamente in queste settimane. E anche la protezione lo stimolo allo sviluppo della cultura e della lingua italiana nel mondo, perché i nostri connazionali all’estero sono una delle più grandi risorse vincenti per il nostro Paese, purtroppo troppo spesso trascurati dalle nostre Istituzioni.

Ci svela qualche “trucco del mestiere” nella gestione di delicate negoziazioni internazionali? Quali sono le cose da fare, e quelle da “non fare mai”…?
Sono rimasto sorpreso, in un recente dibattito sulle “tecniche del negoziato”, nel constatare quanto siano ancora attuali cinque principi elaborati negli anni ottanta dall'”Harvard Negotiation Project”, un gruppo di lavoro che aveva influito sulla formazione di molti giovani diplomatici dell’epoca, oltre che di politici, manager e studiosi della società: A. Negozia sulla base di principi, non di posizioni.
B. Distingui e separa le persone dal problema, senza consentire all’emotività di interferire con una valutazione obiettiva, mantenendo la tua indipendenza di giudizio.
C. Focalizza gli interessi che sei chiamato a sostenere.
D. Elabora opzioni che consentano a tutte le parti di guadagnare dal negoziato.
E. Insisti sull’utilizzo di criteri obiettivi.
Tutto ciò presuppone che ogni trattativa, dalle più importanti conferenze internazionali al più elementare incontro di lavoro con un diplomatico straniero, sia preparato da “compiti fatti a casa”. L’improvvisazione, l’assenza di vero coordinamento, la superficialità, i personalismi e gli interessi privati sono mali diffusi nelle nostre Amministrazioni e nella classe politica. Si deve invece essere “ossessivamente” attenti alla formazione di team negoziali i cui componenti siano unicamente mossi dall’interesse dello Stato, dove sia chiara e collaudata la definizione dei ruoli, la comprensione degli scenari della trattativa, l’individuazione degli “end games”. Si deve anche guardare bene alle modalità di attuazione degli accordi una volta che essi sono conclusi, perché il negoziato non finisce quando ci si alza dal tavolo per un bello “show” con i media. Gli archivi sono colmi di accordi, intese e mediazioni che non hanno mai avuto il benché minimo effetto pratico. Tempo e denaro persi, se non per l’irrilevante vanità di chi se ne è fatto promotore. Da questo si evince il “cosa non fare mai”: improvvisare, parlare fuori contesto, avanzare proposte non coordinate con il proprio team, tenere per sé elementi e informazioni che andrebbero condivisi con gli altri…questi sono tutti ingredienti sicuri per mancare il bersaglio, creare confusione, rendersi poco credibili. Mi è capitato di assistere a protagonismi estemporanei di nostri delegati che si lanciavano – dinnanzi a espressioni visibilmente imbarazzate di chi ci stava di fronte – in disegni epocali di nuove alleanze transcontinentali non proponibili neppure al più fantasioso dei Think Tank, figuriamoci a un tavolo intergovernativo. Per anni abbiamo cercato di radicare una mentalità e una cultura del “lavoro di team” nell’Amministrazione dello Stato: ci sono stati progressi, ma ancora lontani dall’essere sufficienti.

E’ molto affascinante immaginare una vita come la Sua, sempre in viaggio per dossier di così alto profilo. Ci racconta qualche aneddoto che l’ha segnata o che ricorda particolarmente, durante i suoi viaggi o i suoi soggiorni nelle missioni all’estero?
Ironia e humour da sempre sono stati un po’ la linfa dei rapporti personali che “fanno” la diplomazia: aiutano a sdrammatizzare momenti di tensione e a ridimensionare atteggiamenti da “master of the universe” che si vedono sulla scena internazionale. Lo raccontano veri capolavori letterari, in forma anche caustica, come l’insuperabile “Les Ambassades” di Roger Peyrefitte. Gli aneddoti sono infiniti. Vanno dall’uso quanto meno improprio di lingue straniere che ancora oggi personalità politiche fanno volendo dimostrare di poter rinunciare all’interprete, al discorso in Consiglio di Sicurezza dell’ONU letto dal Ministro degli Esteri di un grande paese asiatico seguendo il testo che si era trovato sul tavolo… ma che apparteneva al collega mediorientale che aveva parlato appena prima di lui, ai discorsi privi di una o più pagine, evidentemente “mangiate” dalla stampante senza che nessuno ricontrollasse, in occasioni ufficiali ai più alti livelli… Quanto considero prezioso il consiglio datomi da una grande personalità politica americana, Mario Cuomo, ex Governatore dello Stato di New York, all’inizio della mia missione come Ambasciatore a Washington: “scrivi e cura sempre personalmente i tuoi discorsi”. Il “villaggio globale” del Palazzo di Vetro, moltiplicatore infinito di contatti, è anche fonte inesauribile di situazioni da “comic relief” shakespeariano. Nella grande sala colloqui, la Indonesian Lounge, si incontrano i delegati per discutere le questioni più diverse e delicate. Accade così che un Diplomatico europeo appena trasferito all’ONU voglia incontrare, senza ancora conoscerlo, un collega Azero per parlargli del problema del Nagorno Karabakh, e ne parli invece con il collega Armeno, che pure non ha mai visto prima e che sulla questione ha sensibilità esattamente opposte… O Capita – sempre per citare fatti realmente accaduti – che un funzionario sia chiamato urgentemente dal suo Capo Missione, vada in una cabina telefonica perché ha il cellulare scarico, e vada in affanno non riuscendo più a uscire dalla cabina perché spinge disperatamente la porta a soffietto nella direzione contraria, “salvato” poi nientemeno che dal Ministro degli Esteri di un paese amico che passava lì davanti… Un altro buffo aneddoto riguarda le visite di Stato, quando i “logisti” imponevano ai partecipanti di predisporre i bagagli la sera prima della partenza per consentire l’ordinato e protocollare arrivo in aeroporto della delegazione al seguito. Ci fu il caso veramente unico di un collega che mi telefonò imbarazzato, di primissima mattina, appena resosi conto di aver messo nella valigia – ormai imbarcata – anche il pantalone del protocollare abito blu: non aveva altri capi, gli erano rimasti solo giacca, camicia e cravatta… e solo un colpo di fortuna volle che si trovasse un pantalone di colore diverso ma almeno della stessa taglia!

Ma è vero che fuori ci vedono così male…? O siamo noi a lamentarci forse troppo, mentre l’Italia fuori dai nostri confini viene invece apprezzata…?
C’è una grandissima voglia di Italia nel mondo. Dovunque mi sia capitato di recarmi, da Diplomatico, da Ministro, o da conferenziere o partecipante a iniziative di organizzazioni internazionali di cui faccio parte, questa constatazione si riaffaccia sempre con grande nettezza. C’è un'”altra Italia” che lavora, fa impresa, opera nelle Università, nella ricerca, nella scienza, che ogni giorno si afferma negli angoli più remoti del pianeta con connazionali di successo nella politica, nell’economia e nella cultura, fatta da decine di milioni di americani, argentini, brasiliani, canadesi, australiani ed europei di origine italiana che trovano nell’appartenenza identitaria al Paese di origine la “marcia in più” per contribuire al progresso dei Paesi dove ora vivono. Tra tutti i riconoscimenti ottenuti dai nostri connazionali, credo valga in primis quello contenuto nella Proclamation del Presidente Obama, il 17 marzo 2011: “..Today the legacy of Garibaldi and all those who unified Italy lives in the millions of American women and men of Italian descent who strenghten and enrich our Nation. Italy and the United States are bound by friendship and a common dedication to civil liberties, democratic principles,and the universal human rights our countries both respect and uphold…”. La considerazione che l’Italia ottiene nel mondo, a mio avviso, nasce anzitutto da individui che si affermano all’estero facendo leva sulle caratteristiche migliori della società italiana, sulla sua capacità di essere creativa, innovativa e determinata. La Diplomazia ha un ruolo evidentemente fondamentale nella reputazione del Paese, ma non possono in alcun modo essere disgiunte dal ruolo dei nostri connazionali all’estero. E’ essenziale potenziare il “soft power” rappresentato dalla promozione della cultura e della lingua italiana, anziché umiliarli come sembra voler fare anche questo Governo, ed essere vicini alle istanze dei connazionali all’estero, ancorando le “reti” e associazioni di scienziati, di imprenditori, di uomini e donne di cultura alle Istituzioni del nostro Paese. C’è infine una ragione estremamente concreta per internazionalizzare i nostri orizzonti grazie agli italiani e alle imprese italiane all’estero: da oltre cinque anni siamo in recessione, gli indici negativi toccano PIL, occupazione, domanda e produzione interna. Gli unici dati positivi riguardano l’estero, soprattutto i mercati extraeuropei che assorbono la metà del nostro export. Per tutta la durata della crisi le nostre imprese hanno continuato ad affermarsi all’estero, persino nei paesi a più alta instabilità a causa delle primavere Arabe. E’ l’internazionalizzazione la vera locomotiva della nostra crescita, e ne dobbiamo trarre le dovute conseguenze quando discutiamo di armonizzazione dei mercati euroatlantici, di partenariati orientali e mediterranei, e di rapporti con le economie emergenti. Oltre che le questioni “ideali”, esiste quindi un concreto interesse nazionale nel farlo.

Ambasciatore, con tutta la delicatezza del caso, Le chiedo: riaccetterebbe col senno di poi la proposta di incarico di Ministro degli Esteri…?
Certamente si, perché l’onore che mi è stato riservato nell’essere chiamato al Governo per guidare la diplomazia italiana è il più alto riconoscimento e al tempo stesso la più alta responsabilità per un Diplomatico di carriera. Sottolineo soprattutto il concetto di responsabilità, di fronte al Parlamento e al Paese. Nell’Italia Repubblicana, è avvenuto in due soli casi prima del mio, con Carlo Sforza nel 1947 e con Renato Ruggiero nel 2001. Se un indovino mi avesse faustianamente predetto tutta la storia del mio mandato dal 16 novembre 2011 al 26 marzo 2013, l’avrei sottoscritta in toto, perché sono convinto di aver dimostrato in prima persona che riuscire a coniugare “valori” e “interesse nazionale” è non solo possibile, ma è l’unica strada in grado di dare risultati concreti rafforzando il ruolo dell’Italia nel mondo. In secondo luogo, penso che le quattro grandi direttrici sulle quali ho impegnato la diplomazia italiana – europea, atlantica, mediterranea e globale – definiscano la visione di lungo periodo per la politica estera del nostro Paese. In terzo luogo, penso che il rafforzamento che ho inteso assicurare al ruolo dell’Italia come “superpotenza culturale” appartenga sempre più al DNA della Farnesina, nonostante alcune incertezze percepite negli ultimi mesi.

Le Sue dimissioni da Ministro: un momento difficile?
La gestione da parte della Farnesina della “crisi Marò” dal primo all’ultimo giorno del mio mandato di Governo è stata guidata da due principi fondamentali: la necessità per un paese come l’Italia che invoca a livello internazionale l’affermazione dello Stato di Diritto di non deviare mai dal principio che le controversie tra Stati devono essere negoziate, giudicate e risolte secondo le norme riconosciute del Diritto internazionale e non con trucchi, sotterfugi o prepotenze inaccettabili; in secondo luogo, la certezza che vi sono valori irrinunciabili di sovranità e di tutela fondamentale dei nostri connazionali nei confronti di Stati che prevedono la pena di morte, di rispetto delle nostre Forze Armate, della memoria dei caduti in operazioni di pace e di dignità di Patria, che devono essere sempre salvaguardati. Il mio ruolo e le responsabilità che mi ero assunto dinanzi al Parlamento e al Paese all’atto dell’incarico mi imponevano di contrastare in ogni modo la decisione vergognosa di rimandare Latorre e Girone in India per considerazioni assai mal riposte di natura affaristica, e mi imponevano anche di denunciare – lasciando il Governo – l’enorme errore che si era voluto commettere contro ogni buon senso e nonostante il mio parere contrario. Desidero cogliere anche questa occasione per esprimere la più vicina solidarietà a Massimiliano e Salvatore: devono tornare quanto prima possibile, e nessuno deve neppur lontanamente pensare – e tanto meno accondiscendere, a New Delhi come anche a Roma – all’eventualità di un loro processo in India. In definitiva rifarei con coerenza questa scelta, perché – come dico spesso – per quanto mi riguarda ci sono valori che non sono negoziabili, tanto meno solo per mantenere una posizione di potere.

Eccellenza, con tutti gli impegni internazionali nei quali è tutt’ora coinvolto, quanto tempo le resta da dedicare alla Sua famiglia? I suoi due bimbi e sua moglie non “patiscono” le Sue assenze…? Sappiamo che possiede una moto Harley… è vero? Come mai questa passione?
La famiglia è sempre stata il mio patrimonio più prezioso e la vecchia casa a Tresolzio, all’imbocco delle valli bergamasche costituisce un luogo di riflessione e di vacanza perfetto. Lo è stato per generazioni prima della mia, lo sta diventando per quella dopo. Ci passo tutto il tempo che posso, mai abbastanza. Come per tanti altri bergamaschi, gli svaghi della moto, della bicicletta, dei cavalli, così come le partite a scacchi o a calciobalilla con gli amici, nascono per me da quelle parti. E’ vero o no che si resta giovani sin che si è su una Harley, anche senza arrivare all’estremo di credere, come gli Harleysti accaniti, che si deve “ride to live, live to ride”…?

Lei – lo sappiamo – ha anche la passione della politica. Un suo commento sulla situazione politica e istituzionale del Paese: cosa dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro?
Mi aspetto purtroppo un futuro ancora molto difficile per l’occupazione, i giovani, le imprese, per la tenuta morale del Paese e per la formazione di un senso identitario tra le nuove generazioni. Stiamo attraversando una crisi grave almeno quanto quella del ’29 ma nessun Governo è ancora riuscito a ridare al paese determinazione e coesione per rilanciare il “Sistema Italia”. Periodi così differenti per condizioni politiche, economiche e sociali non possono certo essere raffrontati tra loro, tuttavia il ben diverso clima di libertà e di democrazia che respiriamo oggi rispetto alla dittatura fascista non è purtroppo sufficiente a ristabilire neppure un minimo di fiducia nella classe politica e nella considerazione – bassissima – che la gente nutre nei confronti dei “poteri forti”, della finanza e dell’informazione. Tre disgrazie si sono abbattute sul nostro paese: una corruzione endemica e diffusa, tanto che – per usare una metafora – nella foresta non vi sono più alberi senza termiti; una giustizia civile così lenta da costituire uno dei più gravi handicap per la crescita e l’investimento produttivo, e non solo per i nostri cittadini, ma anche per i potenziali investitori esteri; una burocrazia che pesa sul mondo produttivo e sulla società italiana ancor più di un apparato fiscale già di per sé opprimente. Non si tratta di impressioni. Questi sono i tre essenziali motivi per i quali l’Italia è unanimemente considerata da Organizzazioni ed enti di ricerca internazionali il fanalino di coda tra i Paesi avanzati. Esserlo, significa non avere in Europa credibilità sufficiente a spostare a nostro favore gli equilibri guidati da Berlino. Siamo, con Renzi, al terzo Governo che si autodefinisce “l’ultima spiaggia”. Ma in tre anni un’attività legislativa frenetica, tesa a onorare impegni presi da tempo con l’UE su riforme e finanza pubblica, resta del tutto priva di effetti, perché le leggi adottate necessitano di un’enorme massa di regolamenti attuativi in stragrande misura – almeno i due terzi – mai promulgati. Se la nostra perdita di credibilità a Bruxelles e altrove è stata paurosamente compromessa dal dilagare della corruzione, che provoca sperperi assurdi non solo di risorse attinte dai contribuenti italiani, ma anche dei finanziamenti europei, sarebbe lecito aspettarsi dal Governo un impegno assoluto, convincente e senza tregua sul fronte della lotta alla corruzione, delle misure e delle norme che non solo devono reprimerla, ma che servono a prevenirla. Ebbene, a tutt’oggi non risulta sia così. Ad esempio in questi giorni il Parlamento sta discutendo la riforma della Cooperazione italiana allo sviluppo, un terreno che negli anni ’90 è stato oggetto di scandali a ripetizione. Da una decina d’anni, con grandi sforzi, la Farnesina ha compiuto un’encomiabile opera di risanamento, rafforzando i controlli, le procedure di contabilità pubblica, le modalità di gara, azzerando almeno per finanziamenti di entità più significativa le assegnazioni a licitazione privata. Le proposte del Governo mirano invece a far approvare una riforma nella quale tutta la cooperazione allo sviluppo sia sottratta alle norme della contabilità pubblica e alle relative procedure di controllo. Come se non bastassero gli esempi del Mose, dell’Expo, delle allegre finanze regionali a dimostrare cosa accade quando si applicano criteri privatistici a finanziamenti di miliardi di euro l’anno. La principale priorità dell’agenda politica per il nostro Paese non può che essere quella della corretta gestione della cosa pubblica. Non possiamo fare su questo alcuno sconto al Governo, né lo farà l’Europa.

Ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, ringraziandola per le Sue risposte, Le rivolgo la domanda con cui chiudo sempre le nostre interviste: se potesse scegliere, qual è la notizia che domattina vorrebbe trovare sul suo giornale preferito…?
Vorrei vedere in prima pagina la notizia che Netanyahu e Abbas hanno firmato un “interim agreement” sulla creazione di due Stati, ebraico e palestinese, riconoscendosi reciprocamente il diritto a vivere entro confini definiti in condizioni di sicurezza. Gli estremisti perderebbero la loro ragione di esistere, e i giochi destabilizzanti dell’Iran sull’intera regione diverrebbero assai più problematici per Teheran. Ma soprattutto si realizzerebbe il desiderio di molti, negli ultimi decenni, in quella parte del mondo: la pace, e la voglia di ricominciare a costruire futuro.

©2024 Giulio Terzi

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