POLITICA ESTERA, IDENTITÀ E INTERESSE NAZIONALE – Un discorso di analisi su molteplici scenari contemporanei

Roma, 17 settembre 2016

I) Identità e politica estera

Nel libro “How to be a conservative” uno dei maggiori interpreti del liberalismo contemporaneo, Roger Scruton, scrive che le basi del modello occidentale di società si possono riassumere in: Stato di Diritto, democrazia parlamentare, solidarietà, uno spirito pubblico che si esprime attraverso “piccoli plotoni” di volontari. Si tratterebbe di una società civile non interamente acquisita al dirigismo statalista del “welfare state”, e forse ancor meno alle burocrazie transnazionali.
Nella sua manifestazione empirica il conservatorismo proposto da Scruton è  moderno, concreto, distinto dall’elaborazione metafisica. Riguarda essenzialmente la consapevolezza che a tutti noi, collettivamente, è stato trasmesso un patrimonio positivo di cose buone per le quali dobbiamo lottare.‎ “Nella situazione nella quale ci troviamo quali eredi della civiltà occidentale, osserva Scruton, siamo ben consapevoli delle cose buone che desideriamo. La di possibilità di vivere le nostre vite come vogliamo. La certezza di leggi imparziali, attraverso le quali le ingiustizie subite siano riparate. La protezione dell’ambiente quale patrimonio comune che non può essere sottratto o distrutto a capriccio di interessi potenti. La cultura aperta e indagatrice che ha formato le nostre scuole e università. Le procedure democratiche che ci consentono di eleggere i nostri rappresentanti e di adottare le nostre leggi. Queste e molte altre cose ci sono famigliari e le prendiamo per scontate. ORA TUTTE SONO SOTTO ATTACCO”.

 

Un dibattito sulla politica estera italiana merita, io credo, di partire dall’identità nazionale, europea e occidentale. Considerazioni, è bene notare, che Roger Scruton faceva tre anni prima che l’ondata terroristica  coinvolgesse l’Europa.

Ognuno di noi sente di appartenere a una complessa sfera di cultura, di sensibilità sociali, di tradizioni, di idee e valori condivisi che comunemente vengono definiti “identità”, e l’esemplificazione che ho appena ricordato non è certo esaustiva.  Scruton mi è stato ricordato dal commento di Roberto Saviano su Repubblica l’indomani della catastrofe di Amatrice: “L’aiuto che sta partendo dalla Sicilia al Piemonte è la dimostrazione di un immenso slancio umano che ancora contraddistingue il nostro Paese. Non accade così ovunque, non accade con così forte istinto. E’ il nostro patrimonio più prezioso… Queste persone rappresentano ciò che siamo…”.

Infatti, un forte elemento identitario della società italiana ‎è il principio di solidarietà e di partecipazione, intrinsecamente legato al valore della vita umana e della dignità della persona. E’ rimasto saldo nelle generazioni che hanno vissuto la tragedia della Seconda Guerra mondiale. Neppure le dittature nazifasciste, ne’ quelle  comuniste dell’Europa Orientale sono riuscite a cancellare da noi i valori di questa identità: ricordiamo che nei territori controllati dalle nostre forze armate  la “soluzione finale” voluta da Hitler è stata in ogni modo ostacolata, anche sacrificando la vita, da migliaia di militari, diplomatici, funzionari, religiosi e comuni cittadini italiani.

Se ciò è avvenuto, non è stato un caso della Storia. Per quasi tre secoli il nostro pensiero politico e giuridico ha sviluppato quel senso di libertà laico e illuminista che, in complessa simbiosi con la tradizione giudaico-cristiana, ha ispirato le rivoluzioni democratiche di fine Settecento e ha continuato a far progredire lo Stato di Diritto sino alla sua odierna concezione, fatta propria dal diritto internazionale, dai Trattati Europei e da numerosi accordi regionali e globali.

Ed è la tradizione giuridica  a costituire  per tutti noi un altro, fondamentale elemento identitario‎. Vi è qui un paradosso che c’è sicuramente riflesso nella disaffezione popolare per la politica e per le sue istituzioni. Il nostro Paese è tra i primissimi in Occidente ad aver influito e ancora ad influire, da Cesare Beccaria e Gaetano Filangieri  sino a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sulla diffusione dei principi dello Stato di Diritto in Occidente. E si trova invece ad essere considerata  tra gli ultimi  nell’attuarli, stando alle rilevazioni delle più accreditate istituzioni internazionali su corruzione, libertà di informazione, stato della giustizia, sistema carcerario.

Un fondamentale elemento identitario riguarda la nostra cultura, il suo contributo al progresso dell’umanità. La nostra identità culturale viene alimentata da un'”altra Italia” fatta da decine di milioni di italiani di cittadinanza o di discendenza. L’attrazione verso il paese di origine è così forte che gli ultimi censimenti negli Stati Uniti rilevano costanti e significativi aumenti tra i cittadini americani  che  dichiarano l’origine italiana, mentre l’immigrazione dall’Italia è  ferma da quarant’anni. Purtroppo l’attenzione che dedichiamo a questa “componente identitaria”, storicamente così  importante anche nei momenti difficili, è assai modesta, anche se si sprecano retorica e assicurazioni.

Vi sono certamente molte riflessioni possibili sul tema dell’identità nazionale, e  di un’identità europea,  che  Braudel e la scuola degli Annales parigini allargava alla civiltà Mediterranea. Credo sia tuttavia impossibile per una società che condivide i fondamenti del vivere insieme, una democrazia ispirata allo stato di Diritto, anche solo immaginare una politica estera, e quindi motivi e direttrici del suo relazionarsi con la comunità internazionale, senza avere chiara la nozione di identità e di interesse nazionale. Nella esperienza quotidiana di dialogo tra individui, organizzazioni, Stati è persino banale rilevare quanto le difficoltà nascano sempre dalla mancanza di conoscenza su chi si è, sulla storia che sta dietro a noi, sulla mentalità, le tradizioni, sulle visioni politiche e le aspirazioni che animano una società civile e uno Stato.

Attribuire ad esempio al potere iraniano una netta svolta riformatrice con la presidenza Rouhani, l’ammorbidimento delle sue ambizioni di guidare tutti i musulmani, e la regione di cui è parte, significa disconoscere l’identità della Repubblica Islamica dell’Iran, gli interessi che tale Paese, così com’è governato dal regime attuale, considera irrinunciabili per la sua stessa esistenza. Infatti, la politica estera iraniana si mantiene, abilmente e realisticamente, coerente con quella identità, e quegli interessi nazionali. Semplificando, l’Iran persegue una politica estera eminentemente valoriale e idealista, nel suo costante riferimento alla forza di attrazione al millenarismo sciita, e al tempo stesso persegue una politica estera marcatamente realista per cogliere ogni opportunità per far progredire i propri interessi nazionali.

Per diversi aspetti, l’affermazione identitaria, con politiche estere che associano a impostazioni valoriali un realismo che viene sempre più orientato verso l’uso della forza e sempre meno verso il ricorso al diritto, esiste anche per i Paesi che hanno deciso, soprattutto negli ultimi quindici anni, di affermarsi in contrapposizione all’Occidente.

I “valori euroasiatici” sono sbandierati dal Cremlino, e riecheggiati da una miriade di conferenze e convegni della ancora embrionale Unione Euroasiatica, per giustificare un’interpretazione molto particolare di realismo in politica estera: interpretazione basata sull’uso spregiudicato della forza: dalla Crimea, ai “conflitti congelati” dell’Europa Orientale e del Caucaso, sino al Medio Oriente.

Il richiamo all’identità nazionale per legittimare politiche realiste non manca certamente in Asia: nel Mar della Cina sono ancora i diritti storici, le consuetudini nazionali, la proiezione marittima del Celeste impero quattrocentesco a giustificare, nell’affermazione di identità e interesse nazionale, la politica del fatto compiuto ,peraltro condannato lo scorso luglio dal Tribunale Arbitrale dell’Unclos: la “recinzione” dell’intero Mar della Cina con le nove linee tracciate per estendere la sovranità cinese a scogli semisommersi e disabitati, diventati da pochi mesi nuove basi aeronavali cinesi.

Per decenni Pechino ha rifuggito la realpolitik preferendo il ‎basso profilo. Ora sta cominciando a rompere i vecchi taboo. Si dota di basi militari da Gibuti alla Cambogia, sviluppa sfere di influenza e zone cuscinetto rispondenti a propri interessi strategici,  stipula alleanze che dimostrano il pieno superamento delle tesi di un “non allineamento” anticolonialista dove le alleanze e le sfere di influenza non avevano teoricamente posto.

La geopolitica sembra quindi evolvere verso un sistema semi-bipolare nel quale Cina e Stati Uniti cercheranno di trovare intese globali, sul clima, il commercio, la sicurezza cyber, mentre continuerà probabilmente a inasprirsi il confronto sulla sicurezza e la libertà di navigazione nel Pacifico. La dimensione e la vitalità economica dei due paesi, la presenza globale delle loro imprese, la diversificazione produttiva, l’enfasi sulla ricerca e sull’educazione, ne fanno comunque sin da ora i due assoluti protagonisti sulla scena mondiale. Difficile prevedere se l’Europa riuscirà a riaffermarsi, oltre che da gigante economico, da comprimario sulla scena mondiale. In ogni caso, i principali Paesi Europei, Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna anche nel post-Brexit dovranno sostenere in ben diversa misura, per il futuro, gli oneri della Difesa Atlantica nelle regioni a Est e a Sud dell’Unione Europea, dato che il semi – bipolarismo Usa-Cina non riporterà probabilmente mai Washington a una presenza mediterranea ed europea neppur lontanamente paragonabile a quella cha ancora caratterizzava gli anni ’90.

In tutto questo, la possibilità per la Russia di entrare in modo decisivo nel gioco di un “revisionismo” antioccidentale sembra fortemente condizionata – nonostante la rilevanza del suo dispositivo militare e l’assertività della visione strategica del Presidente Putin, dalla contenuta dimensione della sua economia (il PIL russo e pari a quello italiano; quello Usa circa dieci, e quello cinese sette volte tanto) – dalla incapacità di differenziarsi dalle risorse primarie, dai freni alla trasformazione e all’innovazione. Non vi è tuttavia alcun dubbio che i prossimi anni saranno contrassegnati da un confronto a tutti i livelli e su una miriade di tavoli negoziali circa “chi deve scrivere le regole”. Dalle questioni della proprietà intellettuale, a quelle ambientali, finanziarie, commerciali, sino alle materie che riguardano la sicurezza nei suoi aspetti globali – spazio, cibernetica, prevenzione delle pandemie – e nelle specifiche situazioni regionali, nuove regole devono essere scritte per la sicurezza europea e asiatica riguardo, ad esempio, l’uso della forza militare, le verifiche, le armi di distruzione di massa, il trattamento delle minoranze nazionali.

Su tutta questa vastissima area di collaborazione, e anche di frizioni e contrasti tra i membri della Comunità internazionale‎, è di fondamentale importanza individuare ogni possibile piattaforma comune e politiche convergenti in seno all’Occidente. Se continueremo a essere divisi come siamo stati negli ultimi anni, dalla crisi Lehmann ad oggi, le regole saranno scritte a altre coalizioni di interessi e da Stati che hanno una assai diversa opinione dalla nostra circa le legalità internazionale, lo Stato di Diritto e i diritti dell’uomo universalmente riconosciuti da tutti, ma che molti vogliono comprimere e condizionare.

La comunità internazionale ha fatto grandi passi avanti nell’adottare norme e  principi universalmente condivisi che regolano non più solo i rapporti tra gli Stati, ma che hanno anche efficacia diretta al loro interno. Nell’ambito della tutela dei diritti umani, delle decisioni di alcune giurisdizioni internazionali, la sovranità degli Stati ha subito condizionamenti e limitazioni. Non può essere più riconosciuto un potere assoluto dei Governi sui propri cittadini, solo perché uno Stato sovrano si avvale del  dogma della non interferenza negli affari interni. Nel suo insieme, l’avanzamento del diritto internazionale e l’impulso dato dalle organizzazioni governative e non appartengono a quella che a pieno titolo può essere chiamata la costruzione di un vero Stato di Diritto tra le nazioni.

E’ interesse fondamentale dell’Italia sostenere in ogni modo possibile questo processo. Una legalità sempre più praticata e diffusa nella sfera internazionale non dobbiamo auspicarla per un platonico senso di giustizia, o di amore per il prossimo. Dobbiamo auspicarla nel senso di quanto affermava Adamo Smith per il mercato: è dall’interesse proprio, dal più elementare utilitarismo e spirito di autoconservazione che dobbiamo partire nei rapporti individuali così come tra gli Stati. Il radicamento della legalità nella forma dello Stato di Diritto, deve pertanto essere l’obiettivo numero uno della politica estera, di sicurezza e di sviluppo dell’Italia, dell’Europa e di tutte le democrazie liberali.

Dobbiamo però essere consapevoli che alla via del diritto si sovrappone per molti paesi e regimi quella della forza, dei conflitti per procura, delle occupazioni militari travestite da azioni di volontari e spedizioni umanitarie, del terrorismo agevolato quando non direttamente sostenuto dai servizi di intelligence. Non possiamo sognare ad occhi aperti . E tanto meno praticare una politica estera che vuol vedere quello che non c’è, che resta sorda a dichiarate intenzioni di Paesi da noi abbracciati come partners e che ci descrivono invece nei loro documenti strategici come pericolosi avversari, e persino nemici da attaccare. Né sembra onesto presumere che i Paesi più influenti sulla scena mondiale ritengano loro interesse cedere parti della propria sovranità statuale ad altri, siano essi organizzazioni globali o regionali; o negare che protagonisti della scena mondiale stiano attraversando un’evoluzione politica, sociale, e culturale che accresce la loro consapevolezza identitaria, e le loro pulsioni nazionalistiche; tutto ciò nonostante, o meglio, forse proprio a causa di una globalizzazione apparentemente lineare, ma sotto la superficie piena di contraddizioni e diseguaglianze. Si ripropongono nostalgie neo-Westfaliane. La “non interferenza negli affari interni” era caduta in disgrazia durante le guerre balcaniche degli anni ’90, ed era stata stemperata dalla Responsabilità di Proteggere. Il principio di “non interferenza” è prepotentemente tornato in auge dopo le primavere arabe e  la catastrofe Siriana.

 

II) Quattro punti cardinali: Stato di Diritto; Sicurezza; Europa e Alleanza Atlantica; cultura

Una visione coerente di politica estera deve pertanto corrispondere alle caratteristiche del nostro Paese, a un’identità che abbiamo ogni buon motivo di valorizzare, e ai suoi prioritari interessi. I quattro direzioni‎:

 

1)    l’affermazione dello stato di Diritto nella comunità internazionale, nel presupposto che pace, sicurezza e sviluppo sono profondamente interdipendenti con il rispetto dei diritti umani. Vengono i brividi a molti human rights defenders in Italia, e all’estero quando, anziché promuovere attivamente i diritti umani con nostri partners che li violano, non solo restiamo completamente silenti, ma addirittura cerchiamo di dar corso a loro richieste di estradizione di rifugiati politici sul nostro territorio, facendo rischiare agli interessati l’esecuzione;

2)    la sicurezza del territorio nazionale, di tutti coloro che vi risiedono, e di tutti gli italiani che operano all’estero. Vi sono molti aspetti da sviluppare: le alleanze politico militari di cui l’Italia è parte; la collaborazione internazionale nel contrasto al terrorismo; il quadro di sicurezza collettiva all’Onu, alla Nato, all’UE. L’informazione che il governo riserva all’opinione pubblica su un rischi, origini delle minacce, oneri e impegni politici, finanziari e sociali;

3)    la costruzione europea; il consolidamento dei principi e dei valori europei, atlantici e occidentali, al di là delle contingenze del termine della Presidenza Obama, apparsa a molti coincidere con un ripiegamento globale dell’America nonostante la conferma di molti punti di forza dell’economia, della scienza, dell’educazione universitaria americana, in altri termini della vitalità di quella società‎;

4)    la propagazione della cultura italiana‎, il rapporto con l'”Altra Italia” di sessanta milioni di individui italiani o di origine italiana nel mondo, la consapevolezza che la politica estera del nostro Paese, quale sintesi della proiezione globale della società italiana, deve finalmente dimostrare una solida strategia complessiva.

 

III) La nostra identità e il rapporto con l’Islam

Il tema identitario assume rilevanza ‎ e attualità speciale nel rapporto con il mondo islamico. In una prospettiva storica il rapporto tra Islam e Occidente è stato oggetto di analisi improntate a crescente pessimismo‎. Il grande storico del Medio Oriente, Bernard Lewis ha descritto in un suo recente lavoro la ultramillenaria  spinta espansiva dell’Islam verso l’Europa, individuando tre epoche: la prima dopo l’Egira e le successive conquiste militari dei Califfi Omayyadi; la seconda con la pressione militare Ottomana sull’Europa meridionale e balcanica sino agli attacchi a Vienna nel Cinque e Seicento; le terza ai nostri giorni, non più con la forza delle armi ma con le migrazioni verso l’Europa e la crescita demografica delle comunità musulmane che vi risiedono. Un altro autorevole storico del mondo Musulmano, Ernst Nolte, mancato recentemente, ha insistito sul ruolo di “potere globale” che il mondo musulmano esprime. Le sue analisi di una quindicina di anni fa sono diventate ancor più attuali.

Permettendoci di leggere senza paraocchi fenomeni storici come l’Islamizzazione politica di vaste aree del pianeta Nolte sostiene che l’Islam “… è contro la globalizzazione commerciale o americana ma non è affatto contro una globalizzazione che unirebbe tutto il mondo sotto l’emblema dell’Islam: è una forza mondiale, vuole essere tale”. Negli ultimi anni della sua vita il Prof. Nolte paragonò gli aspetti negativi del giacobinismo violento al moderno islamismo, di fronte al quale “il vuoto dell’Occidente sta soccombendo…”. Secondo Nolte, l’islamismo è quindi la versione moderna dell’Islam fondamentalista, un prodotto della modernità che tenta però di riprodurre l’Islam delle origini, né più e né meno “assimilabile a bolscevismo e nazionalsocialismo” nella sua guerra globale. Nolte definì perciò l’Islamismo “il terzo radicalismo”.

Nonostante lo spessore dei rapporti politici, economici, culturali della società italiana con l’Islam Europeo e con tutti i Paesi musulmani, e nonostante la ricchezza, le opportunità, e i conflitti che hanno scritto quindici secoli di storia del Mediterraneo, dobbiamo riconoscere che si tratta di questione tanto importante per l’Italia quanto superficialmente trattata da gran parte della nostra opinione pubblica.

Vi è una grave carenza e ritardo nel riconoscere, prevenire, contrastare un’ormai estesa radicalizzazione, concentrata in alcune Regioni del Nord se si considerano le formazioni Salafite, e in altre regioni, ad opera di predicatori apparentemente innocui ma rivelatisi pericolosi reclutatori Jihadisti, e centri di proselitismo sciita sostenuti da Teheran. I Fratelli Mussulmani dispongono per parte loro di strutture rappresentative a livello nazionale e di un’ampia rete di sostegni politici, tra i quali membri che ricoprono cariche elettive nazionali e locali.

Siamo in enorme ritardo nella regolamentazione e controllo dei flussi finanziari, la cui provenienza da Governi con i quali abbiamo intense relazioni diplomatiche non garantisce destinazioni compatibili con i nostri principi costituzionali.

Il quadro di sicurezza interna impone urgenti iniziative di politica estera, sul piano bilaterale e multilaterale, e una strategia convincente di politica migratoria e di sicurezza interna. Non si spenderà mai abbastanza tempo nell’approfondire la complessità della questione. Per esemplificare, prendiamo due punti di riferimento: Marocco e Arabia Saudita.

A) Pur con tutte le riserve dovute sul tema degli spazi di miglioramento sul fronte dei diritti umani, l’ Arabia Saudita rappresenta un irrinunciabile partner strategico per i Paesi che hanno a cuore la stabilità regionale. La sua politica estera condivide molti obiettivi occidentali. Negli ultimi quindici anni, da quando Riad è stata all’origine del piano di pace arabo, che ha poi sostenuto nel 2003 la Road Map e il principio di Due Stati, Israeliano e Palestinese, che esistano in pace e sicurezza, la posizione saudita sul processo di pace in Medio Oriente e il suo stesso atteggiamento nei confronti di Israele sono sostanzialmente apparsi moderati e costruttivi. Israele e Arabia Saudita non hanno formali relazioni diplomatiche e Riad non riconosce lo stato ebraico. Appare tuttavia sempre più ‎evidente che i legami tra i Sauditi, altri paesi sunniti e Israele, attivi da molto tempo nella riservatezza dei contatti di intelligence, stanno evolvendo verso collaborazioni e alleanze più esplicite.

Una delegazione saudita è stata in luglio a Gerusalemme per colloqui ad alto livello anche al Ministero degli Esteri. Della visita è stata data pubblica notizia. L’assertività della politica estera di Re Salman e di suo figlio Principe Mohammed bin Salman rivela maggiore disponibilità a collaborare con Israele. Se la scelta è riconducibile alle preoccupazioni verso l’Iran da un lato, e a quella che appare a Riad l’evanescenza della politica americana sull’Iran e sulla Siria. Essa corrisponde all’interesse Israeliano di rafforzare a tutto campo i rapporti con gli Stati sunniti della regione, a livello politico, economico e della sicurezza. Sono così state ripristinate relazioni costruttive con la Turchia. Il Ministro Shoukry è stato il primo Ministro degli Esteri egiziano a visitare Israele da nove anni a questa parte. Canali di comunicazione ufficiali sono ora aperti per Israele, oltre che per l’Arabia Saudita, anche verso gli Emirati Arabi e altri Stati del Golfo.

 

Il Mediterraneo Orientale sta assumendo caratteristiche nuove.

*      L’Italia, insieme ai partners europei e Atlantici deve  rispondere alle incognite di questa rapidissima evoluzione e deve coglierne le opportunità. Le incognite e le opportunità sono anzitutto:

–   la radicale modifica dell’equilibrio strategico Est Ovest nel Mediterraneo orientale, dopo il massiccio spiegamento militare effettuato dalla Russia per sostenere il regime siriano insieme all’alleato Iraniano. Putin si è mosso con una duplice motivazione: la guerra all’Isis; il rilancio di una presenza politica e militare russa in Medio Oriente “sostitutiva” del vuoto di iniziativa e di volontà, prima ancora che di risorse militari e diplomatiche, lasciato da un’Amministrazione Obama fiduciosa di avere nell’Iran un nuovo, potenziale alleato;

–   la correzione di rotta di Erdogan, verso Russia e Israele anzitutto, e la rimodulazione del suo atteggiamento verso Assad e lo Stato Islamico. Sui motivi di questa svolta credo abbia pesato il timore della destabilizzazione interna. Una scia impressionante di attentati ha colpito la Turchia negli ultimi mesi. Sicuramente sono stati originati da Jihadisti dell’Isis e in parte da altre organizzazioni come il PKK curdo. Tuttavia, secondo alcuni, l’ulteriore dilagare del terrorismo sarebbe stato considerato da Erdogan una minaccia riconducibile anche altri istigatori, qualora Ankara avesse proseguito in una linea di confronto diretto con Mosca.‎ Erdogan è ora alla ricerca di un difficile equilibrio con Usa e Nato: una situazione che riguarda da vicino anche l’UE e gli interessi del nostro Paese. La visita del vice Presidente Biden a fine Agosto sembra aver portato qualche opportuno chiarimento dopo la polemica sull’estradizione di Gulen e lo strano tentativo di colpo di Stato;

–   le reti che si stanno definendo per esplorazione,‎ sfruttamento e trasporto di idrocarburi nel quadrante Cipro-Turchia-Israele- Egitto, grazie ai colossali giacimenti off shore del Mediterraneo orientale. La presenza italiana, soprattutto con Eni, è  di assoluta rilevanza, cosi come le collaborazioni che si stanno avviando.

*      Tra Mediterraneo Orientale e Golfo si sta così delineando una “comunità” che – sia pure informale e ancora lontana dall’assumere i contorni di un’Alleanza regionale – concentra molta attenzione sulle problematiche della sicurezza. E siccome in tutti questi Paesi “sicurezza” significa anzitutto lotta al terrorismo e alle sue cause, la collaborazione‎ deve necessariamente essere estesa alle politiche contro radicalizzazione e estremismo. Israele, Turchia, Egitto, Paesi del Golfo sono interlocutori di straordinaria importanza per il nostro Paese.

*      Per il contrasto alla radicalizzazione l’Italia deve promuovere un piano d’azione con ognuno di questi paesi, e collettivamente con loro non appena possibile. Promuovere questa collaborazione deve costituire un obiettivo per noi prioritario da porre al centro della Politica Estera e di Sicurezza dell’Unione Europea e della concertazione atlantica‎.

L’irriducibile antagonista dell’Arabia Saudita é l’Iran. Nella contrapposizione si inseriscono anche le altre monarchie sunnite del Golfo. Essa e’ sempre stata aspra da quando nel 1979 la Rivoluzione Komeinista ha affermato il ruolo guida degli Sciiti iraniani sull’intero mondo musulmano. Ciò che implicherebbe la delegittimazione e quindi la fine  della Monarchia dei Saud, Guardiani delle Due Moschee. La presenza negli Stati sunniti del Golfo di attivissime minoranze Sciite influenzate dall’Iran costituisce un ulteriore elemento di instabilità per i sei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo.

Il contrasto Iran- Arabia Saudita si è aggravato con la fine del regime Iracheno nel 2003. E’ diventato ancor più virulento con la rivolta Houti in Yemen, con le incertezze e le inversioni di marcia americane nel corso degli ultimi tre anni in Siria e in Iraq, e soprattutto – la madre di tutte le questioni nella regione- con la ferma determinazione del Presidente Obama di puntare sull’Iran quale partner affidabile per la stabilità dell’area , nella previsione che gli equilibri interni al regime avrebbero modificato in senso riformista la natura  della teocrazia iraniana.. L’Accordo nucleare, JCPOA, sancisce la fine dell’isolamento iraniano e il successo di Washington, secondo la narrativa che viene  proposta da oltre un anno dall’Amministrazione americana e dai Governi occidentali , e che è tuttavia stata turbata da discutibili retroscena negoziali. Per Israele e per i Paesi del Golfo, e soprattutto per l’Arabia Saudita, l’Accordo nucleare  rappresenta un grave cedimento alle ambizioni espansionistiche dell’Iran . Di conseguenza, la contrapposizione che da decenni alimenta il proselitismo wahabita in Pakistan, Afghanistan, nei Balcani, nelle istituzioni religiose e culturali in tutta Europa, sta avendo  effetti ancor più negativi. In parallelo agli sforzi sauditi per radicalizzare a proprio vantaggio il mondo musulmano, Teheran si impegna sempre più attivamente, con  predicatori e centri di propagazione finanziati da entità “coperte” e dallo stesso Stato Iraniano, nel proselitismo sciita  e nella radicalizzazione.

Come per l’Iran, anche per l’Arabia Saudita vale un “metodo dei due livelli”, che tra l’altro è ampiamente utilizzato anche da altri Paesi – come il Pakistan. Ricordiamo che Bin Laden è vissuto per anni a qualche centinaia di metri da una base dell’intelligence pakistana. Un livello è la linea del governo, asserita pubblicamente, attuata in operazioni antiterrorismo, coordinata internazionalmente. Un secondo livello è quello autonomo, oscuro, disperso in una miriade di organizzazioni semi ufficiali o private, di programmi educativi e di assistenza che in realtà fanno proselitismo per le tendenze più estreme, radicalizzando comunità musulmane e individui in senso nettamente contrario ai nostri principi Costituzionali e ai diritti umani: ad esempio in tema di uguaglianza tra uomo e donna e di libertà fondamentali dell’individuo , specialmente in campo religioso .

Se la strategia Europea e Atlantica di contrasto al “secondo livello” del potere iraniano deve necessariamente riguardare le attività terroristiche di Hezbollah, Hamas, jihad Islamica e le saldature con organizzazioni quaediste manovrate da Teheran, nei confronti dell’Arabia Saudita – paese che si proclama alleato, e non antagonista dell’Occidente come si pone invece l’Iran – è giunto allora il momento di una svolta incisiva nella collaborazione che i Paesi Europei e Atlantici devono collettivamente vedersi assicurare da Riad.

Il New York Times ha recentemente notato che entrambi i candidati alla Presidenza americana, Hillary Clinton e Donald Trump sono d’accordo sulla minaccia terroristica alimentata dall’interno dell’Arabia Saudita. La Clinton ha deplorato “le scuole radicali e le moschee nel mondo che hanno messo così tanti giovani sulla via dell’estremismo”. Donald Trump ha definito i Sauditi “i più grandi finanziatori del terrorismo”. L’inviato speciale americano incaricato dei rapporti con le comunità musulmane nel mondo, Farah Pandith, ha dichiarato dopo aver visitato 80 diversi Paesi che l’influenza saudita sta distruggendo le tradizioni di tolleranza dell’Islam, e che se ciò non finisce se ne devono trarre serie conseguenze diplomatiche, culturali ed economiche.

Le contraddizioni di Riad sono apparse sempre più evidenti da quando si è dovuto constatare che quasi l’intero gruppo di terroristi dell’11 settembre 2001 proveniva dalla penisola saudita. Per molti si tratta della nota metafora del pompiere piromane. Sono saudite le istituzioni e i centri di irradiazione religiosa e culturale che promuovono una forma “tossica” di credo  che separa dogmaticamente un piccolo numero di veri credenti da tutti gli altri, siano essi Musulmani o non Musulmani.‎ Nello stesso tempo le autorità saudite sono nostre alleate nell’antiterrorismo e sembrano convinte che le buone relazioni con l’Occidente siano per loro di vitale importanza. Considerano la minaccia jihadista proveniente da Al Quaeda e dallo Stato Islamico pericolosissima per l’esistenza stessa dello Stato Saudita. Queste contraddizioni devono però fare i conti con la rivalità nei confronti del millenarismo Sciita iraniano e con l’esigenza saudita di combatterlo ad ogni costo.

*      Il “contenimento” delle ambizioni iraniane di dominio o per lo meno di supremazia regionale, le misure concrete da porre in atto per contrastarla, le garanzie di sicurezza che le monarchie sunnite del Golfo‎ chiedono di ottenere dagli Stati Uniti e dall’Occidente, incluso lo stesso Israele, nei confronti dell’ espansionismo di Teheran – stigmatizzato fra l’altro da tutte le recenti posizioni della Lega Araba – sono la direzione verso la quale Stati Uniti e Unione Europea devono urgentemente muoversi se si vogliono ottenere condizioni realistiche per avere dall’Arabia Saudita un’inversione di rotta: anche l’Occidente ha compiti da fare a casa se vuole far prevalere nella leadership saudita l’interesse a rendersi garante dell’eliminazione di tutte le “immunità” sinora esistenti “secondi livelli” coinvolti nella radicalizzazione dell’Islam sunnita, nel sostegno al terrorismo e all’estremismo.

*      Si tratta, per l’Italia, di priorità per la sicurezza nazionale. E’ nostro interesse lanciare iniziative diplomatiche europee e atlantiche in questa direzione. Il mezzo milione di immigrati entrati spesso senza identificazione sul nostro territorio negli ultimi tre anni proviene in notevole percentuale da Paesi musulmani. La precarietà della loro condizione economica e psicologica li rende facili destinatari di un coinvolgimento e di un’interessata opera di assistenza da parte di moschee e centri di proselitismo Salafita e Wahabita dove gli impulsi all’estremismo e alla radicalizzazione sono all’ordine del giorno.

 

B‎) Nella strategia complessiva che dovremmo urgentemente avviare nei rapporti con il mondo Musulmano vi sono Paesi, Governi e realtà che operano in sostegno degli obiettivi di dialogo, tolleranza ed evoluzione culturale verso  riforme e modernità, come noi auspichiamo. Vale per tutti, oltre al significativo e esplicito discorso pronunciato ad inizio del 2015 dal Presidente Egiziano el-Sisi  all’Università Al-Azhar del Cairo in sostegno di un Islam riformato, l’azione svolta da tempo dal Re del Marocco Mohammed VI. Il 20 agosto scorso il Re, rivolgendosi alla comunità dei credenti nel suo ruolo di Capo del Consiglio superiore degli Ulema, ha affrontato con grande chiarezza il tema del fanatismo musulmano, dell’Africa e dei migranti. Ha condannato in modo durissimo l’assassinio di padre Hamel, dicendo: “Siamo convinti che l’assassinio di un prete è un atto illecito secondo la legge divina. La sua uccisione dentro a una Chiesa è follia imperdonabile. I terroristi che agiscono in nome dell’Islam non sono musulmani e sono condannati all’inferno per sempre”.

L’azione del governo marocchino nel contrasto all’estremismo e nel consolidamento di una fede tollerante e moderata ha preso una dimensione rilevante dopo i gravi attentati di Casablanca nel 2003, con 45 vittime. Ogni anno Rabat forma 200 nuovi Imam e predicatori, e organizza per due giorni ogni mese seminari di aggiornamento che coinvolgono 50.000 Imam. Si tratta di un impegno sorretto da un considerevole sforzo economico. Uno sforzo rivolto anche all’estero. Nel Marzo 2015 il Re ha inaugurato l’Istituto Mohammed VI di formazione del clero musulmano. L’idea è nata anche in questo caso per rispondere alla minaccia Jihadista, originata nel 2012 in Mali. L’originario programma per la formazione di Imam di tale Paese si è rapidamente esteso ad altri paesi africani.

*      Il Marocco non è il solo Paese al quale l’Italia è gli altri Paesi occidentali dovrebbero sempre più collegarsi per attività di formazione destinate a comunità emigrate in Europa da Paesi musulmani.‎ In Egitto l’Università Al-Azhar forma dal 2012 migliaia di predicatori e religiosi che operano nel Paese e all’estero. Dallo scorso anno la Francia ha programmi di formazione degli Imam con l’Egitto e con l’Algeria. Anche per noi si tratta d’iniziative di estrema importanza alle quali la politica estera del nostro Paese deve dedicarsi a fondo. Ovviamente, non soltanto la politica estera. Negli ultimi due decenni il rapporto delle Istituzioni e dei Governi con la complessa e culturalmente ricca realtà dell’Islam italiano ‎è stato alto tra le priorità della politica nazionale, ma per intervalli troppo lunghi è stato relegato altrove, riemergendo nel dibattito politico soltanto quando si sono aperte emergenze migratorie, terrorismo o problemi di ordine pubblico. L’azione di politica estera deve inserirsi in una visione complessiva, nella quale scuola, educazione al dialogo e alla tolleranza, riconoscimento della identità siano al centro del rapporto con tutte le comunità musulmane nel nostro Paese. Ciò non può avvenire senza la collaborazione dei Paesi che hanno con queste comunità collegamenti importanti.

*      È un quadro nel quale spicca anche il ruolo della Turchia. I quasi sei anni che sono passati dall’avvio delle Primavere Arabe hanno sovvertito praticamente tutti i presupposti – a cominciare da quello “zero problemi con i nostri vicini”- della sicurezza turca e della sua fiducia in una crescente influenza regionale, dal Mediterraneo e Medio Oriente, all’Africa, al Caucaso e all’Asia Centrale, sostenuta da un’economia in rapidissima espansione e dal rafforzamento politico di Erdogan. L’incantesimo si è spezzato con la distruzione della Siria. L’Italia ha costantemente sostenuto l’allargamento dell’UE alla Turchia vedendone il presupposto nella adesione convinta di Ankara alla Alleanza Atlantica, nella sua accettazione dei principi fondanti del Trattato di Washington, e nel contributo rilevante che le Forze Armate turche hanno sempre assicurato alla Nato anche nei periodi più difficili della Guerra Fredda‎. Prima del consolidarsi della tendenza islamista, gli europei scettici, come in Francia, Germania e Olanda, quanto all’opportunità dell’ingresso di Ankara nell’Unione avanzavano riserve motivate dal mercato del lavoro, di flussi di immigrazione, da disomogeneità culturali e sociali. Da tempo le voci contrarie si sono fatte più insistenti. La rielezione di Erdogan, le ambiguità sulla questione siriana e curda, la repressione del fallito golpe hanno soltanto rincarato la dose di contrarietà. Credo tuttavia si debba fare di tutto per tenere impegnata la Turchia nel percorso di avvicinamento all’Europa e nel ruolo che deve continuare a svolgere nell’Alleanza Atlantica.

*      L’Italia ha maturato sin da prima del 2004, anno in cui il referendum sulla Costituzione Europea prese in Francia e altrove intonazioni antiturche, una forte credibilità ad Ankara. La qualità e l’importanza dei rapporti politici ed economici lo dimostrano perfettamente. Abbiamo insistito con i partner europei per aprire  la porta dell’Unione quando segni concreti verso i turchi avrebbero ‎potuto influire positivamente sull’involuzione islamista di quella opinione pubblica. Il nostro impegno era condiviso soprattutto dalla Gran Bretagna. Il post-Brexit crea indubbiamente un problema. Ma non possiamo lasciare il rapporto Ue-Turchia a una gestione monocratica tedesca.

*     Sulla relazione con la Turchia, cosi importante per l’Italia  nell’evitare che la rotta balcanica di traffico dei migranti diventi definitivamente quella libica, il nostro paese deve agire a Bruxelles (UE) e a Strasburgo‎ (Consiglio d’Europa) per ristabilire, come detto recentemente da Thorbjorn Jagland – Segretario generale del Consiglio d’Europa – comprensione e fiducia reciproca: a condizione che Ankara si astenga, tra l’altro,  di reintrodurre la pena di morte. Circa le misure repressive contro i presunti responsabili e partecipanti del putsch dello scorso luglio la Turchia ha chiesto di derogare ad alcuni obblighi derivanti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo, ai sensi dell’art.15. La Convenzione deve confinare a essere applicata sotto la supervisione della Corte Europea dei diritti dell’uomo, in base al principio che le misure prese devono essere strettamente necessarie e proporzionate alla minaccia alla quale le autorità sono esposte. Una grande attenzione va perciò riservata alle misure di identificazione delle persone, al controllo dell’informazione, alla detenzione preventiva.

*      Il metro dello Stato di Diritto e del rispetto dei diritti umani, riguardo alla Turchia così come alle altre situazioni che riguardano il Mediterraneo, il Medio Oriente, i rapporti con l’Islam, e in tutto il mondo dovrà perciò misurare la credibilità e l’efficacia della politica estera italiana e occidentale a breve e a lungo termine.

 

IV) La nostra posizione in Europa

Per quanto riguarda l’Europa,‎ una valutazione che condivido è quella espressa dall’Alto Rappresentante Federica Mogherini nei giorni della sua assunzione del nuovo incarico:  anche dopo il Trattato di Lisbona, la politica estera resta il “domaine réservé”, l’ambito di azione privilegiata degli Stati nazionali‎.

La Trilaterale di Ventotene, per motivi contingenti e legati scadenze politiche in ognuno dei tre paesi partecipanti, è stata vista da molti come la classica montagna che ha partorito il topolino. Non solo manca una strategia di insieme nell’azione esterna dell’Unione.         La navigazione a vista sembra caratteristica della politica europea dell’Italia . Il Vertice del 22 agosto ne è stato un altro esempio, tra annunci velleitari, ripensamenti e contraddizioni. Un po’ maliziosamente Le Monde, pur  generalmente positivo sul Governo Renzi‎, ha sottolineato che i tre Leaders a Ventotene sono “rimasti molto prudenti sulle risposte concrete da dare “alla situazione post Brexit :”Per ragioni diverse, ha rilevato ancora  il quotidiano francese, tutti e tre sono molto indeboliti politicamente”, Hollande per le presidenziali nella Primavera prossima, Renzi per il referendum costituzionale, Merkel per il rafforzamento dell’estrema destra a causa dell’immigrazione. Un Vertice anticipato a Roma da non pochi squilli di tromba come la creazione di un Concerto dei Grandi rimasti nell’Ue dopo la defezione di Londra, ha ancora una volta segnato la distanza tra annunci e risultati effettivi. Non c’erano forse le condizioni oggettive per lanciare nuovi compact, né idee innovative sull’integrazione economica, monetaria e fiscale, e tanto meno su quella politica: drappi rossi per gli euroscettici di opposizione, ma anche per gli euroscettici che anche all’interno del PD hanno portato il Presidente Renzi la primavera scorsa a usare toni verso Bruxelles non diversi da quelli dei così detti “populisti”.

La leva a Ventotene è stata pertanto azionata su temi già molto collaudati: sicurezza, antiterrorismo, giovani e occupazione,  controllo delle Frontiere comuni. Sarebbe interessante per il pubblico un inventario delle proposte, iniziative, idee di nuovi trattati europei e conferenze intergovernative, ipotesi di un Ministro europeo al Bilancio, compact sulle migrazioni, diritto d’asilo europeo, lanciate da Roma negli ultimi due anni e sopravvissute quanto la vita di una farfalla…

Una personalità ben esperta di questioni europee‎, che il Governo avrebbe tutto interesse ad ascoltare, Piero Fassino, aveva proposto prima del Vertice che Roma provasse davvero a impegnare Parigi e Berlino in un “nuovo inizio”, lavorando a tre su alcuni “nervi scoperti”. Fassino non proponeva mirabolanti rivoluzioni copernicane, né salti acrobatici verso l’integrazione politica o rilanci di un’Europa federale: suggeriva piuttosto che da Ventotene scaturissero impegni precisi su investimenti, crescita, lavoro; sulla gestione della crisi migratoria; sugli interventi di sviluppo nel Mediterraneo; su Siria e Libia, dove ognuno dei principali paesi Europei continua ad andare per la propria strada. Fassino proponeva anche il lancio di cooperazioni strutturate permanenti in materia di difesa e di sicurezza; e infine un percorso di riforma delle istituzioni comunitarie per migliorarne la rappresentatività democratica.

Un approccio che mi sembra ampiamente condivisibile, tuttavia con un “caveat”: è illusorio pensare, come suggeriscono alcuni commentatori, che l’Italia acquisisca quasi di diritto un nuovo status, identico a quello francese, nei rapporti con la Germania, ora che la Gran Bretagna lascia l’Unione. Troppo profondi e numerosi sono i motivi che continueranno a far pedalare Germania e Francia sul loro tandem, anziché trasformarlo in triciclo con l’Italia.

Conta per Parigi uno status che la Francia ha irrevocabilmente acquisito alla Conferenza di San Francisco con il seggio permanente in Consiglio di Sicurezza e che continua a fare puntigliosamente valere, vanificando ogni tentativo di ottenere che in CdS dell’ONU sia l’intera Unione a essere rappresentata.

Conta per la Germania l’aspirazione a ottenere il seggio permanente e  l’elevazione di status che essa si attribuisce  in ogni caso: Berlino è da tredici anni nel Gruppo “5+1” per il negoziato nucleare con l’Iran; si è auto-investita del negoziato migratorio con la Turchia a nome di tutta l’Unione e senza che nessuno, tantomeno l’Italia o la Francia, avessero da ridire; si è accreditata quale voce praticamente esclusiva dell’Unione nel negoziato di Minsk per l’Ucraina, e nel rapporto con la Russia.

Diverse di queste opportunità di “crescita di status” sono mancate all’Italia: talvolta per scelte discutibili (nel 2003 pensammo che stare fuori dal ‎”5+1″ avvantaggiasse i nostri affari con l’Iran, mentre accadde il contrario perché dovemmo allinearci a tutte le misure sanzionatorie contro Teheran…); altre volte per posizioni ambigue, non  apprezzate dalla maggioranza dei partner europei, come per i passi avanti, indietro e di lato fatti sulle sanzioni contro la Russia; infine per la riluttanza a impegnarci in misura paragonabile ad altri, in particolare Francia e Gran Bretagna, nelle attività militari e di intelligence in Libia, in Iraq e in Siria.

Per la crisi libica abbiamo avuto sollecitazioni americane, francesi, britanniche affinché prendessimo il “lead” dell’intero processo di stabilizzazione. Nonostante l’Italia abbia ospitato conferenze e riunioni anche di pianificazione militare, abbiamo tergiversato – per palesi motivi di politica interna – alternando assicurazioni circa il nostro impegno a varie condizioni e distinguo.

Poiché la politica estera, un po’ come la finanza, vive di aspettative, di percezioni e di credibilità, lo sforzo per guadagnarci una auspicabile parità di status con Germania e Francia nella conduzione delle politiche dell’Unione dovrà essere davvero assai rilevante.

* Dovremmo disporre, a Palazzo Chigi e nei Dicasteri strategici per la nostra proiezione europea di personalità “senior” apprezzate e riconosciute internazionalmente per valore ed esperienza.

* Dovremmo essere capaci di fare alleanze solide con gruppi significativi di partner europei su questioni di elevato interesse nazionale, come Libia, Russia, Turchia, Egitto.‎ L’insistenza, tipica di alcune stagioni della nostra diplomazia, per essere invitati a gruppi ristretti o a direttori sulla gestione di una crisi non serve quando è mancata un’azione coerente e un rapporto costante con  le forze in campo, e una visione degli obiettivi che il nostro Paese ha i mezzi di sostenere.

* Dovremmo poter disporre di uno strumento militare, di sicurezza, di intelligence e di un apparato diplomatico strutturato, dotato di risorse, e guidato con la coerenza che dimostrano Francia e Germania nell’affermare il proprio interesse nazionale.

Se l’inconclusività dell’Europa nel rispondere alle crisi in atto – in primis immigrazione e sicurezza – e se la stagnazione economica italiana entrata da tempo nel secondo decennio, hanno spinto al ribasso tutti gli indici di fiducia verso le Istituzioni Europee anche in Italia la vocazione europea dell’Italia deve continuare ad essere un fondamentale caposaldo della nostra politica estera. Non si tratta per l’Italia, nel dopo Brexit, di salire di un gradino o meno.

La questione è piuttosto quella di riformulare una nostra visione dell’Europa che consenta soluzioni tempestive e risposte concrete ai nostri interessi nazionali.  Troppo tempo si è perso . Nella presentazione delle linee programmatiche di politica estera del governo Monti, il 30 novembre 2011, dicevamo: “Occorre un salto di qualità basato sul rispetto delle regole, sulla solidarietà, sul rafforzamento delle istituzioni e sul rilancio delle politiche comuni in settori chiave come quello fiscale e della Difesa… Il progetto di integrazione deve essere rilanciato anche per mantenere vive le prospettive di adesione per l’area balcanica e la Turchia, cosi come va nettamente accresciuto l’impegno europeo nella politica di vicinato nel Mediterraneo”. ‎Dopo cinque anni e tre diversi Governi siamo purtroppo ancora lontani quanto allora dal traguardo.

‎Non possiamo navigare senza punti cardinali e mappe precise. Occorre una visione coerente, ragionevolmente ambiziosa, consapevole della forza della nostra identità, e delle aspettative della società italiana: ricomprendendo in questa nozione tutte le decine di milioni di Italiani che risiedono, lavorano, svolgono attività all’estero, e tengono a veder puntualmente sostenuti e promossi, con i propri, gli interessi dell’Italia.

‎L’assenza di visione strategica non può mai, ancor meno nella fase di rapidissimo e per molti versi drammatico riassetto degli equilibri globali, essere giustificata con insufficienza di risorse, di stanziamenti di bilancio, di riduzione degli organici diplomatici o militari. L’accoglienza degli immigrati è costata in un anno almeno quanto l’intero bilancio della nostra Difesa e otto/nove volte quello degli Esteri. Da tre anni invochiamo a Bruxelles e Berlino misure, come la redistribuzione e il rimpatrio dei migranti, che abbiamo noi stessi contribuito a complicare: prima fra tutte la registrazione e identificazione di oltre centomila clandestini cha abbiamo scientemente fatto entrare in Europa nel corso del solo 2015.

 

V) L’Europa e l’Alleanza Atlantica

Nel cammino tormentato verso una Difesa Europea pienamente integrata, non attuabile a breve o medio termine, la sicurezza dell’Italia resta ancorata all’Alleanza Atlantica. È nostro interesse attuare ogni forma di cooperazione consentita dai Trattati Europei, adoperandoci anche per interpretazioni estensive nel campo delle cooperazioni permanenti strutturate, dell’Agenzia europea per gli Armamenti, della formazione di unità multinazionali, dei meccanismi di “pooling and sharing”. Progressi europei in tali direzioni significheranno contribuiranno a un’evoluzione in crescita dell’Alleanza Atlantica. Nato e Ue hanno instaurato da tempo tra loro una relazione formale, con la partecipazione dell’Alto Rappresentante UE ai Consigli Nato e del Segretario Generale Nato a quelli UE. Nel dopo Brexit è interesse di tutti e specialmente dell’Italia:

1)    andare molto più avanti su questa strada. La cornice atlantica serve a tenere pragmaticamente agganciata la Gran Bretagna  al progetto di una Difesa europea. In altri termini, la Nato consente di affrontare il difficile negoziato Brexit con maggior tranquillità, su Difesa e sicurezza, di quanto non sia dato prevedere per altri negoziati Brexit su commercio, finanza, questioni sociali. Per converso, i ventisette paesi Ue avranno il vantaggio di poter decidere con minori condizionamenti il futuro di un’integrazione politica che porti all’Europa della Difesa;

2)    veder sempre più nella dimensione transatlantica l’essenziale strumento di concertazione politica e di Difesa del mondo Occidentale, a garanzia della sicurezza e della pace non solo per i Ventotto paesi Nato, ma anche per tutti i Paesi esterni all’Alleanza, e che siano già ad essa legati da accordi di partenariato o che comunque si riconoscano nei principi del Trattato di Washington;

3)    approfondire le collaborazioni nel Mediterraneo Orientale. La Turchia deve manifestare con chiarezza la continuità di valori e di interessi strategici, economici e di sicurezza che l’hanno resa da sessant’anni protagonista della sicurezza atlantica nel Mediterraneo. I traumi della catastrofe Siriana, alimentata da obiettivi destabilizzanti di alcuni Paesi, hanno danneggiato la posizione internazionale della Turchia. Ankara ha subito la pressione delle mosse scaltre del Cremlino, dopo il superamento delle “linee rosse” tracciate da Obama per le armi chimiche di Assad nell’estate 2013. Comprimendo gli spazi di manovra della Turchia, il paese Nato più direttamente toccato dalla disgregazione della Siria, la Russia ha colto prima l’occasione per porsi, insieme all’Iran, quale vero arbitro della crisi siriana; e subito dopo, Putin ha disposto uno spiegamento massiccio di mezzi aerei, terrestri e navali in Siria, con l’evidente finalità di ribaltare gli equilibri e le zone di interdizione nell’intero teatro operativo. Ciò che ha avuto immediati effetti, sicuramente positivi per la Russia, sull’atteggiamento di Ankara e perfino di Israele;

4)    l’Italia ha interessi geopolitici evidenti ad una solida presenza Nato nell’intero Mediterraneo e in particolare nella regione Orientale. L’esercitazione Nato effettuata nel Mediterraneo ha voluto mostrare la coesione atlantica in una regione che le iniziative militari russe cercano sempre più di condizionare;

5)   il nostro Paese ha tutte le possibilità, e la responsabilità, di stabilizzare un rapporto complessivo con la Russia che, lasciato all’indeterminatezza, al senso di automatica accondiscendenza a qualsiasi fatto compiuto con ricorso alla forza anziché  ‎al Diritto internazionale, genera spirali di sempre maggior aggressività nella politica russa. Nell’Agosto 2008 la debolezza dei segnali percepiti dalla Russia sulla Georgia‎ ha convinto il Cremlino che non c’era alcun serio prezzo da pagare per alimentare o consolidare “conflitti congelati” nel Caucaso (con riconoscimento dell’Abkhazia e dell’Ossezia) e nell’Europa orientale (intervento mascherato in Ucraina e annessione della Crimea). La strategia militare russa e la riforma molto efficace della sua Difesa confermano lo sforzo decennale del Cremlino di utilizzare occasioni di confronto regionale a fini di politica interna, con l’obiettivo di riportare sotto il controllo o almeno l’influenza diretta di Mosca Stati già parte dell’URSS: giocando la carta di un’Alleanza Atlantica imperialista, aggressiva, ostile e perfino nemica dei russi. Questa strategia viene da tempo chiaramente enunciata nei documenti sulla sicurezza e Difesa russa, e perseguita non solo attraverso una eccezionale capacità di gestione dell’informazione interna. Essa si avvale di una capillare propaganda, disinformazione e manipolazione politica nei principali paesi Occidentali. E’ dimostrata dalle pesanti interferenze nelle Presidenziali americane, con la presenza sino a poche settimane fa di un capo della campagna Trump, Paul Manafort, noto per essere stato per anni stipendiato dall’ex Presidente Ucraino Janukovyč, uomo del Cremlino. Si manifesta in una vasta rete di finanziamenti a partiti, think tanks, organi di informazione interamente filorussi e anti-atlantici in Francia e in Italia;

6)    il Governo italiano deve essere esplicito in sede internazionale, e deve essere infinitamente più convincente sul piano interno, nello spiegare quanto sia essenziale per il nostro Paese, assai più che per altri Alleati nella Nato , assicurare la stretta coesione dell’Alleanza Atlantica. L’Italia è un paese esposto più di altri ai rischi di destabilizzazione in Europa orientale e nel Mediterraneo. Ma c’è di più. Il nostro Paese non può lasciar tramontare un sistema di sicurezza cooperativa Europea organizzato, verificabile, basato su rodati meccanismi di diritto internazionale. Non possiamo convivere con una sicurezza europea andata in frantumi nelle componenti fondamentali del CFE (il Trattato su limitazione e controllo delle forze convenzionali in Europa), dell’INF (il Trattato sulle Forze Nucleari Intermedie), della Carta di Parigi e dell’atto Finale di Helsinki;

7)    opportunamente, l’Italia ha sostenuto le decisioni dell’importante Vertice Atlantico svoltosi a Varsavia in luglio. Vertice significativo perché, mettendo a tacere le Cassandre che anche in Italia, sino alla vigilia, prevedevano un quasi fallimento, ha dimostrato una forte coesione tra tutti i partecipanti. Altrettanto significativi sono stati i contenuti del Vertice: la decisione di predisporre forze di apprezzabile dimensione per spiegamento rapidi a garanzia della sovranità polacca e baltica; il segnale preciso alla Russia che l’art.5 di difesa collettiva si applica anche alle “aggressioni asimmetriche” (finti volontari, rivolte armate organizzate tra minoranze nazionali, attacchi Cyber) entrate da tempo a far parte della strategia russa dichiarata nei documenti ufficiali e praticata sul terreno in ucraina; l’impegno, già tradotto in misure nazionali da Francia, Germania, Gran Bretagna, Paesi Baltici, Olanda, Grecia, di accrescere gli stanziamenti destinati alla Difesa, e di rispettare l’obiettivo da tempo fissato di una crescita annua di almeno il 2% nei bilanci della Difesa, enormemente diminuiti percentualmente sul PIL dalla stagione di un “dividendo della pace”, ormai tristemente tramontato. Un aspetto di speciale rilevanza per il nostro paese ha riguardato la riconvocazione del Consiglio Nato – Russia.

Detto questo, non si può certo essere sereni per la qualità della comunicazione di Governo, dei principali partiti e organi di informazione sulla preparazione e sui risultati del Vertice‎ Nato di Varsavia. Vi è stata una sorta di cortina del silenzio sul perché ci sia bisogno della Nato, sui motivi per i quali l’Alleanza ha un ruolo ancor più essenziale oggi di ieri, per l’Italia, sulla chiarezza che la Nato vuole infondere nelle fondamentali relazioni con Mosca, sulle regole di comportamento e sul Diritto applicabile alla sicurezza europea;

8)    l’Italia è gravemente insolvente nei suoi obblighi di rafforzare bilancio, investimenti, operatività del proprio sistema militare. Siamo al disotto della metà degli stanziamenti ai quali ci siamo impegnati, e lievemente al disopra della metà solo grazie ad artifici contabili che inseriscono tra le FFAA componenti, come quella dell’Arma dei Carabinieri, destinate prevalentemente all’ordine pubblico interno e non alla Difesa stricto sensu. Le generalità dell’ultimo Libro Bianco, basti un raffronto ad altri simili documenti francesi, tedeschi e britannici,‎ non aiutano la credibilità internazionale e atlantica del nostro Paese;

9)   la sicurezza è sempre più preoccupazione prioritaria, se non dominante, per i cittadini europei e per gli italiani. Ma ancora poco viene fatto da parte governativa per informare, comunicare, rispondere concretamente all’infinita serie di interrogativi che il paese si pone. La “politica del diniego” deve fare spazio al Diritto alla Conoscenza” che il cittadino deve avere sulle condizioni della propria sicurezza e le politiche che la riguardano. Una vera “cultura della sicurezza”, guidata dai principi dello Stato di diritto, del valore della vita e della libertà, sembra purtroppo ancora da creare, a livello di Governo, stampa e scuola;

10)  la serie di attacchi in Francia, Belgio e Germania negli ultimi dieci mesi ha modificato le percezioni degli europei sulla loro sicurezza. Come ha notato recentemente anche il Financial Times sono sempre più numerosi quanti associano la minaccia terroristica alle società europee con irrisolti problemi politici, umanitari, economici e demografici in Nord Africa, nell’Africa sub Sahariana, in Medio Oriente e nell’Asia Meridionale. L’attentato costato la vita a nostri connazionali a Dacca ha amplificato anche in Italia la consapevolezza della globalità della minaccia.‎ In un sondaggio Pew pubblicato a luglio in dieci paesi Europei ha segnalato che per il 58% degli intervistati i flussi di immigrazione continuano ad accrescere il rischio di attacchi terroristici nei rispettivi paesi. I ” Compact” di misure sulle migrazioni che abbiamo proposto a Bruxelles devono essere integrati con misure specifiche per la sicurezza di ciascun paese europeo su ordine pubblico, contrasto a estremismo e radicalizzazione.

 

Conclusione

Una politica estera guidata dal senso d’identità e interesse nazionale deve svilupparsi in un quadro di rafforzamento  della integrazione europea e della coesione Atlantica. L’elezione presidenziale americana non può che essere seguita con apprensione. Riesce incomprensibile come un’eventuale Presidenza Trump possa rendere più grande e influente l’America nel mondo: ancor prima della nomination Repubblicana, le manifestazioni di simpatia e sostegno a Donald Trump sono venute soprattutto da personalità straniere non certo amiche degli Stati Uniti. Per contro, molte sono le preoccupazioni per una possibile Presidenza Trump nelle capitali Europee e di altri Paesi che condividono con gli Stati Uniti i valori atlantici, delle libertà fondamentali e dei diritti dell’uomo. Politica estera, sicurezza, sviluppo sostenibile, energia, ambiente, clima restano nella piattaforma Trump nettamente eccentriche rispetto alle consolidate posizioni Atlantiche e europee, e agli interessi del nostro Paese. Tra l’altro non si vede come le posizioni isolazioniste e molto critiche della Nato sostenute da Trump possano tranquillizzare un’Unione Europea, del tutto carente – è’ vero – nell’esprimere un ruolo rapportato alle sue responsabilità globali – ma che ancor più per questa sua perdurante incapacità ha bisogno di rafforzare, e non certo di azzoppare, il sistema di sicurezza e Difesa rappresentato dall’Alleanza Atlantica. Nel dopo Obama non è neppure interesse dell’Europa che la nuova amministrazione prosegua la linea che molti considerano di sostanziale disimpegno nel Mediterraneo, in Medio Oriente, e in Asia.

In Medio Oriente Washington è parsa volersi allontanare dalla scena dopo gli infruttuosi tentativi di rilancio del negoziato israelo-palestinese, e l’aggravarsi della guerra in Siria; l’America si è mostrata indecisa quanto agli obiettivi politici da perseguire, le alleanze da stringere, e gli strumenti da utilizzare‎. La nuova priorità del “pivot to Asia” può forse giustificare la riduzione della presenza militare americana nel Mediterraneo Orientale e nel Golfo. Ma Israeliani e Paesi del Golfo notano con preoccupazione, ad esempio, che mentre la Marina Usa ritiene necessaria la permanenza di un gruppo portaerei nell’area, è la prima volta che ciò non avviene  e incoraggia le provocazioni iraniane di questi mesi contro navi militari americane nel Golfo.‎ Si rileva, tra i Governi filo occidentali della regione, che il disimpegno “stile Obama” ha prodotto esiti dannosi agli interessi dell’America e dei suoi alleati. Il Medio Oriente ha forse perso una parte della propria importanza, ma è ancora molto rilevante per le sfide globali che riguardano tutti e in particolare l’Europa: radicalismo islamico, proliferazione nucleare, sicurezza energetica, migrazioni…

Una politica estera più coerente e determinata nell’asserire l’identità occidentale, basata innanzitutto sull’affermazione dello Stato di Diritto, rappresenta una svolta ineludibile per un’Europa e un’America realmente coscienti delle responsabilità epocali alle quali sono chiamate verso i propri cittadini.

©2024 Giulio Terzi

Log in with your credentials

pergot your details?