Discorso “BREXIT: how to deal with the unthinkable”

Università di Treviso, 15 marzo 2017

Master di Diritto Comunitario in collaborazione tra l’Università di Utrecht e l’Università di Treviso

 

BREXIT: how to deal with the unthinkable

Introduzione giuridica al tema fornita dalla Prof. Linda Senden, head del dipartimento di EU Law dell’omonimo Master presso l’Università di Utrecht e consulente del Governo olandese sul tema, seguita da una Lectio sui negoziati, le loro implicazioni per l’Unione e per l’Italia.

 

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  1. Brexit, Londra e gli altri.

 

L’ultimo numero di Foreign Affairs ospita un articolo di Matthias Matthjis – “Europe after Brexit” –che si diffonde sulla situazione nella quale si trova in questo momento il Governo di Theresa May, e  ruota attorno al ben noto concetto “you cant have your cake and eat it too”. L’articolo esordisce così:

 

“For some reason, every time British Foreign Secretary Boris Johnson is asked to discuss the upcoming Brexit negotiations with the EU, he uses a food metaphor. He is hard enough to follow for his fellow Englishmen, and it must be infinitely worse for non-native English speakers. Imagine the confusion felt by Italian Foreign Minister Paolo Gentiloni when he learned that Johnson’s preferred approach to exiting the EU was to be “pro-secco but by no means anti-pasto.” Gentiloni has now been threatened with an actual prosecco trade war if the United Kingdom does not get favorable divorce terms with the EU. The best Gentiloni could come up with in retaliation was a prospective ban on fish-and-chips exports from the United Kingdom. Never since the 1970s “cod wars” with Iceland has the British menu been so contentious.”Così Foreign Affairs.

 

Gli elettori  che andranno a votare nei prossimi mesi in quattro Paesi fondatori dell’Unione non verranno forse influenzati in misura determinante dalle molte technicalities dei negoziati tra Londra e Bruxelles. Eppure la Brexit, e il futuro dell’UE ,costituisce  un tema centrale nell’elezione Presidenziale francese; e lo continuerà ad essere nelle consultazioni olandesi, tedesche ‎e italiane. Per chi vorrebbe lasciare l’Euro e ridimensionare drasticamente l’Unione, la Brexit è un precedente che dimostra come scelte politiche nazionali possano prevalere sui Trattati anche dopo sessant’anni di un faticoso, ma ininterrotto percorso di integrazione sotto lo stendardo di “un’Europa sempre più coesa”. Per chi ritiene invece che l’Euro e l’Unione debbano essere riformati, ma non certo smantellati, la Brexit è una “crisi ma anche un’opportunità”, un passo necessario a ridare stabilità e efficacia all’intero sistema europeo. Trattandosi di scenari di enorme impatto, è naturale che essi siano al centro, e spesso dominanti, nel dibattito politico nazionale.

 

Nell’immediato, sono due i tavoli sui quali si stanno giocando le partite con le poste più elevate anche per l’Italia.

 

Il primo concerne la trattativa tra la Gran Bretagna e l’Unione, dopo il voto ai Commons dell’8 febbraio scorso- peraltro rallentato dalla successiva decisione della Camera dei Lords -per attivare l’art. 50 del TUE sull’uscita di un paese membro dall’Unione. Sarà il Parlamento Britannico a dover approvare o respingere l’accordo che – entro due anni – auspicabilmente risulterà dal negoziato tra Londra e gli altri 27. Altrettanto significativa è stata la decisione venuta poco dopo, sempre dai “Lords”, che i cittadini europei residenti in Gran Bretagna non potranno in alcun modo essere inseriti tra le questioni oggetto della trattativa Brexit avendo dei diritti acquisiti che devono essere tutelati. Il che significa, tra l’altro, che Theresa May viene privata sin da ora di una carta, forse piccola rispetto a diverse altre, ma non certo irrilevante sotto il profilo politico, nel negoziato con i 27.

 

Il secondo tavolo riguarda non una certezza, ma una possibilità reale e piuttosto elevata, che avrebbe riflessi ancor più  profondi del Brexit per l’Unione, e per l’Italia. Quella di una vittoria di Marine le Pen alle Presidenziali Francesi. Essa avvierebbe un negoziato per l’uscita dall’Unione di un Paese fondatore, membro dell’Eurozona, fortemente integrato sul piano economico e politico con il nostro. La diversità tra Brexit e Frexit dovrebbe – già di per sé stessa – sconsigliare al mondo politico italiano di addentrarsi in surreali dibattiti su un’Italexit che – date le caratteristiche strutturali del nostro Paese – avrebbe conseguenze assai pesanti per la sostenibilità della finanza pubblica (nonostante una criticata e fantasiosamente creativa opinione di Mediobanca), condizionerebbe l’accesso ai mercati europei e non, le politiche di sviluppo e di coesione, e di sicurezza.

 

‎Brexit ha subito fatto emergere un contrasto procedurale, come spesso accade in negoziati di così ampia. In questo caso assume un valore discriminante per Paesi e forze politiche coinvolti. Si tratta di questo: Il negoziato vero e proprio con Londra dovrà iniziare solo dopo che la Gran Bretagna avrà fornito assicurazioni formali di voler onorare tutti gli impegni finanziari assunti quale membro dell’Unione? O si potrà invece iniziare subito a trattare delle diverse questioni di sostanza, mentre in parallelo si discute la validità e la quantificazione degli  impegni  di bilancio assunti per il settennato 2014-2020? La prima tesi è sostenuta dalla Commissione, con l’appoggio tedesco, e ora anche italiano. La seconda impostazione è affermata con vigore dal Governo britannico che ricorda come la scorsa estate i leaders europei si fossero espressi a favore della seconda ipotesi, come pure aveva fatto il PdC Gentiloni nel suo primo incontro con Theresa May.

 

L’emergere nell’autunno scorso delle prime quantificazioni della “nota spesa” da addebitare a Londra era divenuto subito argomento scottante ‎soprattutto per i Brexiters. Avevano fatto campagna promettendo risparmi per l’erario pari a quasi mezzo miliardo di dollari la settimana. E invece la doccia fredda era iniziata con un think – tank indipendente britannico che aveva stimato anziché un risparmio per il bilancio britannico, un passivo tra i 24,5 e i 72,8 miliardi di Euro. Michel Barnier, il negoziatore della Commissione per la Brexit, parla di un conto tra i 40 e i 60Mld €, a seconda che il contributo britannico al bilancio UE sia calcolato al 12%o al15%. La Commissione ritiene debbano essere inseriti ad esempio i “fondi di coesione”, aspetto importante per noi data la rilevanza di tale strumento per lo sviluppo regionale. Pure da inserire gli oneri pensionistici  di tutto il personale europeo perché  costituiscono una responsabilità collettiva dei Paesi membri. Analogamente, nessun paese membro-sia esso contributore netto al Bilancio Ue come Francia e Germania, o beneficiario netto, come i Paesi dell’Est – ha interesse a “sostituirsi” alla quota britannica nei molteplici programmi di ricerca o di infrastrutture già avviati collettivamente. Anche in questo caso si tratta di un preciso interesse italiano, se pensiamo alla ricerca, ai fondi di coesione e al completamento dei corridoi trans-europei, vitali per l’Italia.

 

Londra sembra voler far leva su alcuni “sweeteners” per rafforzare una posizione negoziale che attualmente deve confrontarsi a un fronte abbastanza  deciso tra i 27. La Germania appare un poco più aperta al compromesso così da avviare rapidamente le trattative commerciali, e definire le condizioni di accesso al mercato unico, accontentandosi magari in una prima fase di un’intesa  soltanto di principio sul bilancio. Gli “sweeteners” su cui Londra farebbe leva riguarderebbero la Difesa europea, la partecipazione esterna ad alcune cooperazioni rafforzate, i rapporti con i Paesi Baltici e con la Polonia.

 

Il fattore tempo e l’agenda politica influiranno sul risultato finale in modo assai più diretto che in altre precedenti esperienze‎ europee. Infatti, una volta attivato l’art. 50 prevede un termine perentorio di due anni e la mancata soluzione dei numerosissimi temi in discussione si tradurrebbe in una “hard Brexit”. Uno strappo al quale non potrebbe che seguire una lunga stagione di contenziosi e di incertezze.

 

  1. Frexit e … Italexit?

 

‎Le elezioni francesi si svolgeranno tra pochissime settimane proprio su questo sfondo. La  sorpresa di molti Brexiters nel constatare come la loro scelta fosse stata condizionata da una falsa rappresentazione della realtà economica, dalla sottovalutazione degli ostacoli legali e politici, nonché degli enormi oneri finanziari da affrontare, dovrebbe costituire un punto di forza per i concorrenti di Marine Le Pen che divergono dal suo programma anti UE, e anti NATO. Per contro, la Brexit rafforza la tesi che ogni Stato membro deve essere pienamente libero di decidere se proseguire nel solco dei Trattati e nel processo di integrazione, o se esercitare il diritto sancito dall’art. 50 del TUE, di uscire dall’Unione. Per complicato che sia per Londra attuare questa decisione, la questione assume una complessità certamente maggiore per un grande Paese dell’Eurozona come la Francia.

 

Un possibile tavolo Frexit riguarderebbe una Francia profondamente diversa dal quadro politico e culturale che ha caratterizzato la storia della Quinta Repubblica”. Sono passati molti anni, ha scritto recentemente l’Economist, da quando la Francia ha sperimentato una rivoluzione o per lo meno un serio tentativo di riforme. La stagnazione, politica ed economica, è stata il distintivo di un Paese dove assai poco è cambiato per decenni, anche se il potere ha ruotato tra ben consolidati partiti della  destra e della sinistra. L’elezione presidenziale di quest’anno promette un vero sovvertimento”. Socialisti e Repubblicani che hanno dominato la scena da sessant’anni, potrebbero essere eliminati al primo turno, lasciando il campo a Marine Le Pen, leader carismatico del FN, e a Emmanuel Macron, il leader del nuovissimo movimento liberale “En Marche’ ”. Una possibile Frexit sarebbe così guidata da un Governo marcatamente “sovranista”,‎ intenzionato a uscire dall’Euro e dall’Unione, ad avviare una politica di “protezionismo intelligente”, di accentuazione dell’interesse e della dimensione nazionale rispetto a quella europea, e di uscita dall’Alleanza atlantica. Abbandonare l’Euro richiede anzitutto una precisa strategia su come gestire in termini finanziari, giuridici e politici l’indebitamento del Paese verso il resto del mondo. La Francia ha visto il suo debito crescere considerevolmente negli ultimi anni. Esso ha raggiunto quasi il 100% del PIL, ancora ben al di sotto del livello italiano – 133% – ma con problemi ormai simili quanto ai crescenti oneri per interessi e alla sostenibilità del debito sui mercati finanziari.

 

La ricetta proposta dal Front National si basa sulla riconversione in Franchi ‎del debito in Euro. Secondo gli economisti del FN una quota corrispondente a circa 1,7 trilioni di Euro dell’intero debito pubblico – praticamente l’80% del totale – dovrebbe essere riconvertito in Franchi: legittimamente, secondo il FN, perché tale parte del debito è stata emessa in base alla legislazione nazionale francese. Mentre per il restante 20%, emesso nel quadro di norme internazionali, rimarrebbe la denominazione in Euro. Secondo le agenzie di rating tutto ciò si tradurrebbe nel più grande default di debito sovrano mai avvenuto per un’economia moderna, dieci volte più grande della ristrutturazione del debito greco nel 2012. Agenzie come Standard&Poor e Moody hanno già messo le mani avanti: “se un Paese debitore non aderisce agli obblighi contrattuali con i creditori, compresi i pagamenti nella moneta stabilità per contratto, si dichiara lo stato di insolvenza”; “il vero test è  se il cambio di valuta si traduce in una perdita per i creditori, che non ottengono più i ritorni che devono avere sui loro investimenti”. Il FN insiste peraltro che uno Stato sovrano ha diritto di modificare le proprie leggi, ridenominando la valuta di emissione dei titoli del proprio debito pubblico. E la svalutazione del Franco, una volta uscita la Francia dall’Euro, alleggerirebbe il peso del debito ridenominato in Franchi.

 

Di fatto, le considerazioni di teoria economica e di legittimità giuridica dovrebbero essere integrate da altre di almeno uguale importanza. Diversamente dai casi di default del debito di Paesi latinoamericani o est europei, un possibile default francese dovrebbe essere consentito, se non pienamente concordato, all’interno dell’Eurozona alla quale appartiene una quota importante di creditori.

Al difuori dell’Eurozona conteranno molto i sottoscrittori americani del debito francese; quindi, un mondo finanziario legato strettamente al Presidente Trump che disporrebbe di considerevole capacità di influire su una Presidenza espressa dal FN. La crescita senza precedenti dello spread sui titoli decennali francesi rispetto al Bund tedesco mostra come sia già in atto non solo un meccanismo di anticipazioni, ma anche di pressioni politiche sulla Francia. Non è quindi casuale che Marine Le Pen stia insistendo negli ultimi tempi sulla sua volontà di un’ “uscita ordinata” dall’Euro, lanciando l’idea di un Franco sempre legato all’Euro da un sistema concordato di fluttuazione ristretta – analogo all’European Currency Unit antesignano dell’Euro – che rassicuri Governi partners e Paesi creditori che Parigi attuerà politiche economiche e monetarie non dirompenti per gli altri. È tuttavia evidente che una banda di fluttuazione del 2% o 3%, tipo ECU, se pur dovesse tranquillizzare i restanti membri dell’Eurozona, servirebbe poco a quella drastica riduzione del debito pubblico che rappresenta, per il FN, uno dei due scopi fondamentali del ritorno al Franco; l’altro obiettivo essendo una svalutazione della moneta nazionale che dia slancio decisivo all’esportazione francese.

 

L’attenta analisi della situazione francese meriterebbe una riflessione molto più approfondita da parte di chi propone “ricette francesi” per l’economia italiana, che fra l’altro si muove con handicap nettamente superiori a quelli di Parigi.

  1. I “default “ dell’Unione.

 

La crisi di fiducia nell’Unione Europea‎ è registrata da diversi anni da Eurobarometro. Un sondaggio di Pagnoncelli realizzato in Italia tra il 7 e 9 febbraio segnalava un 59% di risposte negative alla domanda “ Lei quanta fiducia ha nell’UE?”, un 36% di risposte positive e un 5% di “non so”. Quanto all’ipotesi di un voto referendario sull’Euro, il 33% si dichiarava favorevole a uscire, il 41% per rimanere, e il 26% indifferente. Anche in Italia la caduta di fiducia nell’Unione, e ancora più nell’Euro, ha diverse concause.

 

Sono parecchi i “default” che l’opinione pubblica addebita all’Europa e alle Istituzioni comunitarie, dandone la responsabilità principale all’UE anche quando sono gli Stati membri a dover essere chiamati per primi in causa. E abbiamo visto in questi ultimi anni come i nostri Governi abbiano trovato politicamente conveniente scaricare su Bruxelles le proprie stesse carenze, con il risultato di aizzare ancor più il risentimento e l’incomprensione della nostra opinione pubblica nei confronti dell’Unione.

 

In ogni caso tra i” default” addebitati all’Europa, che oggettivamente non sono altro -in buona misura-che la somma algebrica delle carenze dei singoli Stati membri, spiccano :

– l’immigrazione incontrollata;

– il senso di insicurezza di fronte all’ondata del Jihadismo e della radicalizzazione;

– le deludenti performances nelle principali crisi che toccano interessi dell’Unione – dalla Crimea alla Siria, dal Medio Oriente alla Libia -;

– l’incapacità di affermare uno Stato di Diritto compiuto in Paesi UE dove corruzione e interessi privati nella gestione della cosa pubblica sono particolarmente diffusi, senza escludere le stesse istituzioni comunitarie.

 

Tuttavia è la polarizzazione della crescita sulla finanza globale e sull’accumulo squilibrato della ricchezza la causa che più di ogni altra genera disaffezione verso l’Europa  in quella vasta e crescente parte di opinione pubblica che viene ,superficialmente, bollata come “populista”. La crescita zero nell’Eurozona è figlia della catastrofe dei “sub – prime mortgages” e della crisi esplosa con il fallimento di Lehman Brothers.

 

La disoccupazione e la perdita di milioni di posti di lavoro in America e in Europa tra il 2008 e il 2012, l’aumento della povertà, la crescita dell’indebitamento nei Paesi Mediterranei dell’Eurozona hanno reso ancor più stridente il divario di ricchezza tra l’1% e il 99%: il singolo e più destabilizzante fattore di instabilità per le democrazie liberali dell’Occidente. A tutto questo si aggiunga la percezione diffusa di un “doppiopesismo” tra chi viola le regole di Maastricht sul deficit – come l’Italia- e chi viola -come la Germania- quelle sul surplus commerciale. Ognuno di questi aspetti nuoce specialmente all’Europa.

 

Dopo un quarto di secolo dal varo dell’Unione Economico e Monetaria e dopo sedici anni dalla creazione dell’Euro le Istituzioni e i Governi dell’UE non sono riusciti a trasformare – come  dimostrato dal perpetuarsi dei comportamenti che avevano innescato la crisi del 2007/2008- un sistema di finanza globale‎ profondamente malato, e ormai molto distante da quella sua funzione di ordinato sviluppo dei mercati nell’interesse delle imprese e dei consumatori che era stata sino alla fine dello scorso secolo l’essenza dell’economia liberale, e della stessa democrazia occidentale.

 

Le forze che i principali partiti di Governo bollano come “populiste” accusano la finanza globale di aver continuato a lucrare profitti crescenti  non soltanto durante tutta l’ultima prolungata recessione, ma di aver persino elargito bonus e dividendi siderali a dirigenti che hanno dovuto risarcire decine di miliardi di dollari per violazioni fiscali e truffe  a danno di loro clienti. Quello che viene ritenuto da alcune élites al potere il Gotha della finanza globale appare a molti un elenco di finanzieri e banchieri ai quali oggi nessun “bonus paterfamilias ” affiderebbe consapevolmente un euro dei propri risparmi.

 

Sarebbe da sorprendersi se la caduta reputazionale di un mondo così straordinariamente ricco, privilegiato e influente, non aggravasse la reazione del pubblico nei confronti di Istituzioni nazionali e comunitarie che sembrano ancora così impotenti nell’affrontare alla radice i problemi del passato e di prevenire l’ulteriore ripetizione di quanto avvenuto: adottando ad esempio drastiche misure di sorveglianza e di regolamentazione dell’attività bancaria, del mercato dei derivati , della tutela del risparmio. Le condizioni politiche affinché ciò avvenga non sono facili da ottenere. Una crescita economica e una concentrazione dei profitti tanto polarizzata sulla dimensione finanziaria  si traduce in pesante condizionamento sui Governi -come sta avvenendo in America con l’abolizione del Dod-Frank Act e la deregolamentazione voluta da Wall Street-; viene così sbilanciata la rappresentanza  di interessi collettivi  nelle democrazie occidentali.

 

  1. Finanza globale e polarizzazione della ricchezza.

 

In una realtà – l’Unione Europea – per sua natura politicamente più fragile degli Stati che la compongono, il peso della finanza globale e degli interessi riflessi sul “governo” dell’Unione assume importanza critica per molti cittadini europei

 

Il pregiudizio che il divario senza precedenti nella ricchezza tra il vertice e la quasi totalità della piramide dei redditi provoca alla stabilità politica e all’economia è ampiamente descritto da ricerche degli ultimi anni, come quelle  di Robert Reich, Thomas Piketty, Paul Kgrugman, Joseph Stiglitz ‎e altri. E non si tratta solo di questioni che riguardano crescita e distribuzione della ricchezza. Nicolas Eberstadt’s ha scritto nel suo ultimo “Commentary” che la crisi  che ha consumato a fuoco lento la vita sociale della società americana è molto peggiore di quanto sia stato pur ampiamente descritto. L’osservazione, come dimostrano gli orientamenti elettorali, i sondaggi e le rilevazioni statistiche dell’ultimo quinquennio, vale ugualmente anche per l’Europa. Ci troviamo in un’era di stagnazione dei redditi e della crescita che coesiste con l’accumulo senza precedenti della ricchezza; un’era nella quale molti si arrendono nella ricerca di un’occupazione, con molti giovani che vivono con i genitori, con dati preoccupanti sulle ludopatie, epidemico uso di oppiacei, diminuzione dei matrimoni e delle nascite, dell’impegno civile, della pratica religiosa, e in alcuni paesi europei  declino delle aspettative di vita aumento dei suicidi, e altre deprimenti litanie.

 

In queste ultime settimane un economista francese, Cedric Durand, ha segnalato l’ accentuarsi degli squilibri nella finanza globale e i rischi di quelli che chiama “Rimedi tossici alla crisi finanziaria”. Durand ricorda come la tesi Rogoff- Reinart  della stabilità di bilancio quale condizione essenziale per la crescita sia stata autorevolmente contestata sul piano accademico. Sarebbe perciò ancor più criticabile la costante rinuncia dei Governi europei a intervenire sul piano macroeconomico con politiche che avrebbero politicamente rafforzato l’Unione, lasciando tutti gli interventi nelle mani della BCE e del “Quantitative Easing”. L’azione della BCE, benché tardiva, ha fermato la speculazione contro i debiti sovrani che era stata all’origine della mutazione della crisi dei “sub prime” in crisi dell’Euro. Ma il QE non riguardava né il sostegno agli investimenti né l’occupazione.

 

L’esperienza del QE aveva dimostrato anche in America che le imprese si erano avvalse degli interessi più bassi per indebitarsi con le banche ma non tanto al fine di creare nuovi investimenti, bensì per aumentare i loro dividendi e per riacquistare azioni. Entrambe finalità finanziarie a beneficio dell’azionariato.

 

Negli Usa il riacquisto di azioni ha superato i 500 Mld di dollari l’anno dal 2014 e i dividendi i 600 Mld di dollari. I dati disponibili in Europa dicono la stessa cosa: il QE ha portato ricchezza all’azionariato e al mondo finanziario, ma ha avuto un impatto del tutto trascurabile sull’investimento, che invece è diminuito da due a tre punti di PIL nelle principali economie europee al disotto dei valori pre-2007. Se si considerano gli investimenti netti, per ogni dollaro di reddito solo 2 centesimi sono re-investiti nell’Eurozona, e solo 4 negli Usa, nonostante il QE. L’effetto collaterale della riduzione dei tassi è stato la diminuzione degli investimenti più sicuri nei portafogli dei fondi pensione e assicurativi, con conseguenze rilevanti sulla loro sostenibilità. Si è così ancor più accelerata la concentrazione degli attori economici. Le grandi società hanno approfittato della ingente massa di liquidità per moltiplicare le fusioni e le acquisizioni che nell’ultimo biennio hanno superato tutti i record toccati prima del 2007.

 

I profitti realizzati sugli investimenti dalle grandi società americane più competitive sono oggi cinque volte superiori alla media, rispetto a un indice di solo due volte superiore negli anni ’90. Investitori come Black Rock, State Street e Capital Group controllano attualmente dal10% al 20% della maggior parte delle grandi imprese americane, ivi comprese quelle che sono in concorrenza tra loro, e impostano le proprie strategie in relazione ai ritorni finanziari che possono ottenere anziché in vista dei risultati di ogni controllata.

 

Il tentativo di restaurare il regime neoliberale e finanziario degli anni 1980-2008 attraverso politiche monetarie straordinarie, sostitutive di interventi macroeconomici di rilancio della crescita, non ha portato i successi sperati e ha accumulato altri rischi di nuove conflagrazioni finanziarie. In questo quadro si accumulano anche le inquietudini circa la credibilità dell’Unione e della sua governance economico finanziaria per gli elettorati europei.

 

  1. Il “recupero” di sovranità.

 

Una devoluzione parziale di responsabilità e di poteri agli stati nazionali non comporta necessariamente la messa in discussione dell’impianto complessivo per la parte rimanente. Del resto, lo stesso Trattato lo consente[1]. Ma il punto diventa quello di individuare la quota di competenze e di poteri che potrebbe essere retrocessa senza mettere a rischio il funzionamento dell’insieme. Qui il discorso rischia di farsi tecnico.

 

Si prenda il Mercato Interno. Può un mercato a dimensione continentale funzionare senza una base uniforme di norme? In una situazione di libera circolazione dei beni, o le regole a presidio del buon funzionamento del mercato sono comuni, o il ritorno a misure statali restrittive per la tutela di interessi rilevanti, tra i quali anche la sicurezza dei consumatori, diventa prima o poi inevitabile, con tutte le conseguenze che abbiamo già sperimentato in un passato di contrasti e di ostilità. E così per le altre tre libertà fondamentali. La stessa concorrenza, per potersi esplicare liberamente, ha bisogno di un “playfield” uniforme: il divieto degli aiuti di stato rientra in questa problematica. E tutto ciò non si può fare che a livello europeo.

 

L’introduzione dell’euro ha rappresentato il naturale sviluppo del Mercato Interno. Può una moneta che affida la propria credibilità al funzionamento di diciannove economie diverse sopravvivere senza uno stretto coordinamento di quelle stesse economie e senza la tendenziale convergenza dei bilanci nazionali? Si pone anzi il problema se il corretto funzionamento dell’euro non comporti la necessità di estendere il campo delle regole condivise e delle risorse comuni.

 

Se le elezioni francesi, olandesi, tedesche e italiane lo consentiranno, stabilizzazione e rafforzamento dell’Eurozona passano attraverso un ripensamento dell’architettura complessiva, sia di natura economica che politica. Tuttavia, la dimensione del nostro debito e i suoi problemi endemici – in primis, finanza locale, banche, corruzione – rendono difficile un ruolo protagonista dell’Italia a meno di una drastica sterzata e di una ben diversa consapevolezza da parte di tutta la classe dirigente del Paese.

 

Un’integrazione ulteriore delle politiche di bilancio, essenziale al futuro di una vera moneta unica, richiederebbe una ampia mutualizzazione del debito dell’Italia, con ingenti trasferimenti finanziari a carico dei Paesi più solidi, specialmente la Germania. Chi può illudersi che il Bundestag ratificherebbe una tale operazione, onerosa per i contribuenti tedeschi, senza esigere contropartite ferree sulla gestione di bilancio e sulla politica economica nel suo insieme?

Viste le anticipazioni che stanno emergendo dalla Brexit e che si preannunciano per la Frexit in caso di vittoria del FN, non sembrano esistere scorciatoie, o miracolosi algoritmi, per uscire indenni dall’eurozona, ma neppure per rimanervi, se non ci affrettiamo a disinfestare il Paese e la politica dalla corruzione, dal diniego delle responsabilità e dell’accountability, e a ricostruire urgentemente stato di diritto e legalità. Il nostro aggancio all’Europa deve quindi essere incondizionato sul piano dei diritti.

 

  1. Un’Unione “ meno coesa”? Alcune variabili e una necessità.

 

Nell’ultimo Summit a Malta molti Capi di Stato e di Governo hanno appoggiato la proposta targata Benelux di un’Europa a diverse velocità: una via d’uscita che riemerge ormai da quattro anni ogniqualvolta scende ancora di qualche gradino, dopo risultati elettorali deludenti per le forze politiche più dichiaratamente europeiste o per rinnovati timori sulla tenuta dell’euro, il traguardo mobile di “un’Europa sempre più coesa”, sancito dai Trattati e dal “credo” incontestato a Bruxelles – e a Roma- sino all’inizio di questo decennio.

 

A riprova della stridente “bicefalia” istituzionale dell’Unione – intergovernativa con i Consigli europei da un lato, e sovranazionale dall’altro, con Commissione, Parlamento europeo e Corte di Giustizia- Jean-Claude Juncker ha cercato di ridare spazio alla Commissione presentando nei giorni scorsi un Libro Bianco. Vi si disegnano cinque possibili scenari sul futuro delle istituzioni europee che vanno da uno minimo, di esclusiva integrazione del mercato interno, a un massimo di funzioni che rafforzino l’integrazione economica e politica. Cinque gradazioni che però non richiederebbero una riscrittura dei trattati. Al loro vertice a Versailles i quattro maggiori Paesi europei – Italia, Germania, Francia, Spagna – si sono orientati verso opzioni intermedie. Si pensa alla riedizione di cooperazioni rafforzate di nuova generazione rispetto a Schengen e Euro. Lo slogan è: “Chi vuole di più fa di più”. Terreni da coltivare sono la difesa, la politica estera, le politiche sociali. L’elefante nella stanza resta l’immigrazione: aspetto particolarmente penalizzante per un Paese come il nostro che ancora non si è dotato – diversamente da altri partner europei – di efficaci misure nazionali per proteggere le frontiere – ciò che rappresenta un obbligo comunitario oltre che costituzionale-, per valutare rigorosamente  le richieste di protezione umanitaria, per attuare ragionevoli politiche di accoglienza e di rimpatrio. Sino a che non daremo ai partner europei prove di serietà nel difendere i nostri stessi interessi nazionali, oltre che gli interessi europei nel loro insieme, sarà assai difficile che a nord delle Alpi qualcuno si commuova alle nostre quotidiane invocazioni di solidarietà sulla questione dei migranti. “Fare di meno in modo più efficiente”, l’altra semplificazione emersa dagli ultimi incontri tra i Capi di Governo, significa ridisegnare alcune funzioni attuali dell’UE, ridurre le regole europee in alcuni settori, ma mantenendo lo stesso assetto di oggi e dando più spazio alla cooperazione rispetto all’imposizione di politiche.

 

In questo nuovo scenario, nell’Europa continentale a 27 si confrontano due approcci diversi. Da un lato, quello attualmente egemone a Bruxelles-Berlino-Parigi: l’asse che ha condotto l’UE all’attuale stagnazione economica è campione del no alla competizione fiscale in nome dell’”armonizzazione”, di una visione di rigida omogeneità che penalizza le diversità e la concorrenza, di un welfare costoso e di megaprogetti pubblici. Jean-Claude Juncker ne è l’emblema. Sul versante opposto sta cercando di organizzarsi un altro fronte che può trovare proprio negli inglesi una sponda esterna. Esso afferma la necessità di riequilibrare dalle fondamenta rapporti che si sono polarizzati attorno alla dominante tedesca, e di uscire con decisioni coraggiose da un’impasse decennale  che continua a peggiorare la situazione di alcuni e di premiare quella di altri. Nel Sistema Euro non si può prescindere da riforme strutturali che generino crescita e ne distribuiscano equamente i benefici.

 

L’Unione e la BCE- sostengono molti che vogliono un’Unione più equa e solidale, prima ancora che un’”ever closer Union” – dovrebbero dare impulso a una revisione della legislazione fiscale, a una politica monetaria espansiva, cambiare le regole della Governance societaria in modo da incoraggiare i consumi , gli investimenti e l’aumento delle retribuzioni. Far convergere tra loro le economie dei Paesi a più alto debito pubblico unicamente attraverso riforme interne, appare sempre più una “mission impossible” se la posizione tedesca non entra seriamente in discussione. I crescenti surplus commerciali tedeschi dovrebbero essere tassati. Berlino dovrebbe stimolare la domanda interna, favorire una strategia di aumenti retributivi, e di deficit spending. Realisticamente, la prospettiva che Berlino possa sostenere in concreto, e non solo a parole, la creazione di una vera e propria “Fiscal Union “, la cui assenza viene riconosciuta da tutti come il vero problema dell’attuale Unione Monetaria, appare teorica. I tedeschi dovrebbero abbandonare una tradizione di sessant’anni di risparmi elevati, bassa inflazione, e salari moderati, per accettare massicci trasferimenti a favore di Paesi criticati da molti in Germania perché assai meno “virtuosi” del loro. Joseph Stiglitz ha calcolato che se dovesse esserci in Europa un meccanismo di trasferimenti diretti simile al federalismo fiscale americano, che ha un welfare meno generoso di quello europeo, i trasferimenti dalla Germania aumenterebbero di decine di volte.

 

Inoltre un’Unione Fiscale comporterebbe poteri intrusivi di supervisione sui sistemi finanziari dei Pesi membri, una condizione politicamente difficile allo stato delle cose anche in Italia. Una impostazione sul post Brexit dovrebbe guardare a:

  1. un’Europa a più cerchi di integrazione nella quale si rivaluti la dimensione mediterranea;
  2. riconoscere a ogni Stato membro, attraverso una norma di sovranità, del diritto di accettare o respingere le misure adottate a Bruxelles;
  3. rimettere in discussione il c.d. Rapporto dei Cinque Presidenti su ulteriori misure di ”armonizzazione”.

 

  1. Le necessità immediate riguardano:

 

  1. A) la Difesa comune; B) lo Stato di Diritto e la legalità nell’Unione e nei rapporti esterni.

 

  1. A) Difesa.

Italia, Francia e Germania, con il concorso di altri paesi dell’Eurozona soprattutto tra i fondatori devono ridare con decisione una nuova propulsione a un processo che sarà necessariamente di integrazione differenziata. Sul piano giuridico non c’è bisogno di inventare nulla: il Trattato offre già gli strumenti adeguati. E’ sul piano politico che bisogna agire. E siamo convinti che una difesa comune debba essere accompagnata da una più efficace politica estera comune che dalla prima tragga forza e coerenza: anche in questo ambito l’Italia deve riprendere quel ruolo propositivo e di composizione delle diverse posizioni che ha spesso svolto in passato, soprattutto in momenti di crisi.

 

Nei mesi scorsi il Governo italiano ha in vario modo segnalato l’esigenza che i paesi che lo vogliano intraprendano questo cammino, mettendo in comune e integrando assetti, capacità e base industriale per la sicurezza e la difesa e gestendo insieme altri beni comuni come gli investimenti necessari alla crescita, anche attraverso un bilancio ad hoc dotato di risorse proprie e di piena legittimazione democratica.

Negli ultimi giorni i Ministri della Difesa hanno deciso, con il consenso britannico, la creazione di un Quartier Generale di Comando per missioni comuni e addestramento, sempre a condizione che non vi siano duplicazioni con l’Alleanza Atlantica.

Si tratta di tentativi che, pur replicando esperienze non riuscite in passato, si situano in una dinamica nuova: a causa delle incertezze che si notano a Washington e che certo non rassicurano gli alleati europei sulla incondizionata “copertura”, sia convenzionale che nucleare, che il Trattato di Washington garantisce ai sensi del suo art. 5. Si è persino aperto un dibattito sulla deterrenza nucleare e sulla possibilità che gli europei possano dotarsi di un loro autonomo sistema di difesa nucleare attraverso un’estensione a tutti i 27 Paesi che resteranno  nell’Unione dopo la Brexit dell’eventuale utilizzo della “force de frappe” francese. Certamente si tratta di un pensiero ardito, con implicazioni politiche di ampia portata, difficili da digerire ad esempio per il pubblico tedesco oltre che per altri. Ma il fatto che se ne parli dimostra il clima di insicurezza che si avverte.

 

Un altro ambito sinora poco esplorato, sotto il profilo di una Difesa comune Europea, ma che presenta opportunità particolarmente rilevanti riguarda la “quinta dimensione “della sicurezza e della Difesa: quella cibernetica. La Direttiva “Network Information Security-NIS” è stata adottata il 6 Luglio 2016 dal Parlamento Europeo. Essa si colloca all’interno di una strategia europea che mira a rafforzare la cybersecurity e la resilienza informatica dell’Unione Europea e muove dalla considerazione che le reti, i sistemi e i servizi informativi svolgono un ruolo vitale nella società e, pertanto, è essenziale che essi siano affidabili e sicuri per le attività economiche e sociali, in particolare ai fini del funzionamento del mercato interno. Per fare ciò, e per fornire una risposta efficace alle sfide in materia di sicurezza delle reti e dei sistemi informativi, si è reputato necessario un approccio globale a livello di Unione, che contemplasse la creazione di una capacità minima comune e disposizioni minime in materia di pianificazione, scambio di informazioni, cooperazione e obblighi comuni di sicurezza per gli operatori di servizi essenziali e i fornitori di servizi digitali.

 

La Direttiva è entrata in vigore nell’Agosto del 2016 e gli stati membri da allora hanno tempo sino al 9 maggio 2018 per trasporla -attraverso la normativa nazionale- nei rispettivi ordinamenti e altri 6 mesi per identificare gli “operatori dei servizi essenziali”. Fermo il livello di armonizzazione minimo posto dalla direttiva, gli Stati membri sono liberi di adottare norme che garantiscono un livello di protezione più elevato. Se la dimensione cyber è già divenuta prevalente nei sistemi di Difesa -anche come parte delle strategie di deterrenza, e di potenziale risposta- l’ottimo lavoro realizzato con la Direttiva NIS con la standardizzazione e l’obbligatorietà di comuni capacità e strumenti, può essere vista sin da ora come la fase più promettente e dinamica di una comune Difesa Europea.

 

 

 

  1. B) lo Stato di Diritto e la legalità nell’Unione e nei rapporti esterni.

 

La sfida dello Stato di Diritto e della legalità condensa tutte le altre. Nel prefigurare i diversi scenari aperti dalla Brexit e da altre possibili, parziali o radicali Exit, riconfigurazioni funzionali o geometriche, sovraniste, neofederaliste o confederaliste dell’Unione, credo sia estremamente    importante cogliere la necessità di una costante di valori giuridici e politici essenziale per ogni cittadino, nazione, o governo europeo.

 

Lo Stato di Diritto è diventato il vero principio costituente, giuridico e politico di tutti gli Stati e popoli dell’Unione. L’art. 2 TUE contiene il richiamo più evidente laddove pone in centrale evidenza: ”L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazie, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”. Tali valori sono comuni agli Stati membri. Lo Stato di diritto ha caratterizzato a tal punto l’evoluzione degli ordinamenti giuridici degli Stati membri da essere definito nel TUE un “valore” anziché” un mero “principio” come nei Trattati precedenti. Tutto ciò è stato riconosciuto dalla comunicazione della Commissione al PE e al Consiglio. “Un nuovo quadro dell’UE per rafforzare lo Stato di Diritto”, COM (2014) 158: il principio dello Stato di Diritto discende dalle tradizioni comuni di tutti gli Stati membri e, in quanto tale, può certamente dirsi “il valore fondante “ dell’UE.

 

Il concetto di “tradizioni costituzionali comuni” è richiamato nei Trattati e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Esso viene ulteriormente evocato all’art. 6, par. 3, TUE laddove si stabilisce che i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e “risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. Questi ultimi costituiscono una fonte specifica del diritto UE sviluppatasi anche nella giurisprudenza della Corte di Giustizia e in quell’attività definita come “judicial constitutionalization” del diritto dell’Unione, prima ancora di entrare a far parte dei Trattati.

 

Si può quindi perfettamente affermare, riflettendo alla portata a livello europeo di questo “principio-valore” ben evidenziato dalla comunicazione COM (2014)158, che lo Stato di Diritto è il “principio dei principi”, in una sovraordinazione concettuale e sistemica non dissimile da quella che in altri tempi veniva definita la “Grundnorm” di ogni sistema giuridico. E’ infatti questa Grundnorm a implicare a propria volta il rispetto dei principi di legalità, certezza del diritto, divieto di arbitrarietà  del potere esecutivo, indipendenza e imparzialità del giudice, controllo giurisdizionale effettivo, uguaglianza davanti alla legge.

Lo Stato di Diritto deve caratterizzare gli obiettivi della politica estera e gli strumenti, le risorse, la formazione, la mentalità stessa della diplomazia europea. La sua promozione interagisce con la protezione dei Diritti Umani. Nessun altro campo del Diritto, ha scritto Tom Bingham, ha un così evidente fondamento morale: il pensiero che ogni essere umano, semplicemente in virtù del proprio esistere, è titolare di alcuni essenziali, e in certi casi incondizionabili, diritti e libertà.

Per questi motivi lo Stato di Diritto, con tutte le sue implicazioni, resta l’essenziale garanzia, il più valido impegno e la fiducia meglio riposta nell’Europa di domani.

 

[1] Cfr. art. 48,2 del Trattato sull’Unione Europea secondo il quale i progetti di modifica dei Trattati eventualmente proposti dai governi degli Stati membri, dal Parlamento europeo e della Commissione “possono essere intesi a accrescere o ridurre le competenze attribuite all’Unione…”

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