Intervento “Il Medio Oriente dopo l’accordo nucleare con l’Iran”

Camera dei deputati, Sala della Regina, 9 marzo 2016

 

Il “Grande Mediterraneo”, lo spazio geopolitico che si estende Gibilterra al Golfo e all’Asia Minore e collega situazioni regionali fortemente connesse tra loro soprattutto per quanto riguarda le sfide delle migrazioni e del fondamentalismo, deve rappresentare il principale riferimento per la politica estera e di sicurezza dell’Europa, cosi’ come da sempre avviene per l’Italia.

Nessun altro spazio geopolitico quanto il Grande Mediterraneo condensa risorse, opportunita’, e dinamiche che influiscono tanto sul futuro dell’Europa.

Tra queste, vi e’ soprattutto l’emergere- sostanzialmente incontrastato dalla caduta di Saddam Hussein nel 2003 – dell’Iran come “superpotenza regionale”. E’ certamente auspicabile per l’Italia, che ha una storia estremamente importante di rapporti con questo Paese, di antica e affascinante cultura, di straordinarie potenzialita’ economiche, un’ accresciuta  responsabilita’ iraniana quale fattore di stabilita’ e di sviluppo regionale.

L’Accordo nucleare entrato in vigore nelle scorse settimane offre garanzie, o per lo meno rende piu’ concrete e realistiche le nostre aspettative in tale direzione?

Favorita dall’esigenza di Washington di dimostrare la lungimiranza degli sforzi effettuati dal Presidente Obama sin dall’inizio del suo primo mandato per fare dell’Iran un partner responsabile, oltre che nella rinuncia all’atomica , anche nella gestione delle crisi regionali, si e’ subito diffusa sulle elezioni iraniane una narrativa di segno nettamente positivo, entusiatico e persino trionfalista, che ha trovato immediata eco in Europa.

Gli ingredienti di un sentire dominante anche tra i Governi Europei, abilmente alimentati da una campagna comunicativa e da iniziative diplomatiche di Teheran con le visite di Rohani a Roma e a Parigi e la miriade di missioni economiche e politiche ospitate nell’ultimo anno dalle autorita’ iraniane, sono stati soprattutto:

*la prospettiva dell’immediata apertura di un grande mercato, sostenuto dalla rimozione delle sanzioni in settori strategici come l’energia, i trasporti, i servizi, le tecnologie aeronautiche e navali, e soprattutto le cospicue disponibilita’ finanziarie derivanti dallo scongelamento di 150 miliardi di dollari resi ora disponibili all’Iran;

*la fiducia che l’entrata in scena da protagonista dell’Iran – con la sempre piu’ solida alleanza militare e strategica della Russia- risolva definitivamente la tragedia siriana;

*il convincimento che l’Iran intenda davvero eliminare lo Stato islamico in Siria e in Iraq e la minaccia terroristica nella regione, anziche’ ridare vita a un regime criminale, quello di Assad, che ha fomentato la nascita dello Stato Islamico con la liberazione dalle proprie carceri di un migliaio di Qaedisti a fine 2011 e in particolare dell’ispiratore della “euro-jihad, Abu Mussab Al Suri;

*la valutazione che l’Iran sia un partner dell’Occidente nell’evitare la disgregazione irachena e possa essere interessato ad attuare la Costituzione irachena del 2005 con partecipazione effettiva della componente sunnita alle istituzioni politiche e di sicurezza del paese;

*la fiducia riposta nelle buone intenzioni di Teheran nel chiudere il dossier nucleare, nonostante i tentativi di contrabbando di materiale sensibile collegato al programma nucleare militare scoperti ancora nei giorni scorsi in Italia . Inquietano anche i punti lasciati in sospeso sulle attivita’ pregresse, contenuti nel Rapporto Aiea dello scorso dicembre e “sanati” dall’Agenzia di Vienna  per non interferire con il via libera all’accordo nucleare.

*I punti irrisolti nell’ultimo Rapporto dell’Aiea erano rilevanti : la “ripulitura” del sito di Parchin prima che gli ispettori internazionali fossero autorizzati a accedervi; il divieto di contatti con il personale iraniano coinvolto nel programma nucleare per  spiegazioni sull’esistenza o meno di attivita’ clandestine; i progetti tecnici sugli inneschi nucleari; le attivita’ missilistiche vietate e pur rese evidenti dai test anche recenti di vettori intercontinentali con capacita’ nucleari. Tutti aspetti critici per la sicurezza e la non proliferazione nucleare , archiviati all’insegna della Ragion di Stato sull’Accordo Nucleare.

 

L’accordo nucleare ha certamente costituito un punto centrale nelle recenti elezioni al Parlamento Iraniano.

La narrativa sviluppatasi in Occidente aveva d’altra predetto, se non data per scontata, una sia pur lenta, ma probabile evoluzione liberale, riformista, aperta al mondo esterno del sistema politico iraniano per effetto del “ritorno” nella Comunita’ Internazionale di un Paese che era stato isolato dalle barriere sanzionatorie e dall’esperienza fallimentare di un’economia governata dagli integralisti . Un’economia sempre piu’  dominata dagli apparati di sicurezza,  nella quale l’80% dell’attivita’ industriale  dipenderebbe direttamente dal Corpo della Guardia Rivoluzionaria Islamica e dai Vertici dello Stato iraniano.

Il piu’ influente organo di stampa americano di tendenza democratica, il NYT, intitolava il suo editoriale all’indomani dell’elezione al Majlis :“ A big win for Rouhani in Iran “. C’e’ tuttavia da tener ben presente, osservava il giornale statunitense, che la vittoria dei riformisti, e’ avvenuta soprattutto perche’  l’eliminazione della quasi totalita’ dei veri riformisti dalle liste elettorali, ha portato ad una “riqualificazione  postuma” di molte candidature, inizialmente etichettate come “conservatori moderati” , in  “ candidati riformiste”.

Molti candidati “ultraconservatori” sono stati inseriti cosi’ nella “Lista della Speranza” che era stata invece presentata come lista di “conservatori moderati”. Ed e’ stata proprio questa  “Lista della Speranza” a stravincere nella capitale con l’affermazione di Hashemi Rafsanjani, personalita’ contrapposta a Khamenei sul piano politico, dottrinale e degli interessi economici, ma propugnatore determinato della continuita’ del regime. L’ex-presidente  Rafsanjani e i membri del suo governo sono stati incriminati dalle magistrature di Germania, Svizzera e Argentina per i crimini terroristici commessi in paesi esteri. Nelle elezioni al Majli anche altre personalita’ presentate come  “indipendenti” sono in realta’ fortemente omogenee al sistema e soprattutto ai suoi apparati di sicurezza, come il Presidente del Parlamento Ali Larijiani.

 

Tutto cio’ ha portato lo stesso NYT, nel suo pur entusiastico editoriale, a introdurre comunque una nota di marcata cautela:

”L’Iran e’ ben lontano dall’essere una democrazia. Molti moderati in Iran sarebbero considerati integralisti –“hard liners”- altrove. Gli integralisti hanno uno stretto controllo sulle forze di sicurezza, l’apparato giudiziario, la maggior parte dell’economia, e continueranno a esercitare tale controllo per il futuro prevedibile. E nonostante l’accordo nucleare , il ruolo destabilizzante dell’Iran in Medio Oriente , i suoi legami con la Russia, l’ostilita’ contro Israele rendono difficile per gli Stati Uniti e i suoi alleati Occidentali avere relazioni normali con Teheran”.

Si puo’ considerare democratico  un regime islamico nel quale  tutte le candidature devono essere approvate preliminarmente dal Consiglio dei Guardiani, l’organo  che risponde alla Guida Suprema e  assicura la piena aderenza ai principi del“velayat e faquih”?

Anche se volesse, scrive nel suo ultimo numero The Economist, il Presidente Rohani non potrebbe certo agire come una sorta di Mikhail Gorbachev . Gli iraniani ci sono passati altre volte. Nel ’97 l’elezione alla presidenza di Khatami era stata seguita da una ventata riformista alle elezioni del Majlis . Ma i Mullahs non avevano certo allentato i freni.

Ho ritenuto di dover citare per esteso questi giudizi. Essi sono significativi sia per l’autorevolezza della fonte sia per l’allineamento del NYT e dell’Economist e le tendenze  che essi sempre mostrato sulla necessita’ del dialogo con l’Iran, sul disimpegno militare e dell’America dal Medio Oriente, e sulla opportunita di nuove intese nella guerra all’Isis con Teheran e con Mosca. Nelle nomine di governo lo scorso anno per ben quattro volte e’ risultata impossibile la nomina di un candidato di Rouhani all’incarico- cruciale dopo l'”onda verde” del 2009- di ministro dell’Educazione. Sono evidenti le violazioni dei diritti umani, in particolare contro le donne; il numero senza precedenti delle condanne a morte; la persecuzione fisica e psicologica a Camp Liberty dei Mujaheddin iraniani nonostante essi abbiano lo status di persone protette dall’Onu.

 

Non vi e’ da illudersi sulla situazione dei Diritti Umani in Iran. Repressione di ogni vera forma di opposizione e di pluralismo politico, discriminazione etnica e religiosa sono rimasti inalterati nei  due anni e mezzo di presidenza Rouhani .Con  almeno 2300 esecuzioni capitali, Teheran vanta un record sinistro se si considera il rapporto tra condanne a morte eseguite e popolazione del paese. Dopo l’accordo nucleare Khamenei si e’ affrettato a ripetere che non vi saranno altre forme di cooperazione con l’Occidente e che si ritiene impegnato personalmente ad evitare qualsiasi  attenuazione nel severo rispetto della legge islamica.

 

 

Ingerenza iraniana negli affari interni degli altri paesi e attività destabilizzanti nella regione sono state stigmatizzate ancora recentemente, dopo l’entrata in vigore dell’Accordo nucleare, dalla Lega Araba e dai Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Teheran mantiene attivi collegamenti con organizzazioni terroristiche, motivo per il quale il Paese e’ sempre inserito da Washington tra gli Stati sostenitori del terrorismo.

 

 

 

 

 

 

Il “nuovo corso” del Presidente Rouhani sta dando  i frutti sperati sotto il profilo di una  “gestione delle crisi regionali “ in direzione compatibile con le priorita’ dell’Occidente? E’ vero che gli sciiti andati al potere in Iraq dopo l’eliminazione di Saddam Hussein si erano subito comportati da “proxies” di Teheran; e che contemporaneamente veniva scoperto in Iran un programma nucleare clandestino. Ma questo era solo l’inizio. Per tutto il decennio l’influenza iraniana sull’intera regione si e’ ulteriormente consolidata:

 

– grazie ad Al Maliki l’Iran ha governato per interposta persona l’Iraq, con i risultati che vediamo ;

 

– ha fomentato la rivolta Houti in Yemen, la ribellione in Bahrein, alimentato il contrabbando di armi e i finanziamenti ad Hamas a Gaza;

 

– ha incoraggiato Hezbollah, a colpire Israele dal Libano, e  a intervenire in Siria;

 

– ha inviato  in Siria un  ingente corpo di spedizione di Pasdaran e di milizie scite irachene, reclutando combattenti afghani di fede sciita dal Paese confinante e tra i rifugiati Hazara in Iran. In Siria e in Iraq la repressione antisunnita, sin da prima dell’emergere dello Stato islamico, e’ stata soprattutto opera di queste milizie.

 

– Siria, Iraq, Yemen, Libano, sono  Paesi  ormai “irrinunciabili” per l’Iran, come dichiarano pubblicamente i Vertici politici e militari a Teheran.

 

La strategia Iraniana trova nelle crisi Siriana e Irachena occasioni irripetibili, paragonabili solo a quella del 2003 in Iraq: lo Stato Islamico ha convinto la coalizione occidentale -araba che il “male necessario” e’ quello di appoggiare gli sciiti contro i sunniti, sia pure dando per scontato che Assad ne uscira’ vincente e che la preminenza scita a Baghdad si consolidera’ ulteriormente.

 

All’intesa tra Erbil e Baghdad sulla ripartizione delle risorse petrolifere, di bilancio e sulla collaborazione militare deve seguire il recupero effettivo delle componenti sunnite, anziche’ tradursi semplicemente in una saldatura tra curdi e sciiti.

 

Il problema, che riguarda direttamente l’Europa e l’Italia, e’ ben lontano dal poter essere risolto con la distruzione dello Stato Islamico.

 

Non ci possiamo aspettare che la riedizione del “metodo Maliki /Assad” in Iraq e in Siria, all’insegna del revanscismo sciita e dell’esclusione dei sunniti dal governo e dall’economia del paese, senza alcuna garanzia per la loro sicurezza e per il loro futuro, non abbia conseguenze gravi in tutta l’area del “Grande Mediterraneo”. Vediamo avanguardie della radicalizzazione sunnita nell’insediamento ormai radicato dello Stato Islamico in Libia, un’enorme minaccia per l’Italia e per l’Europa. Lo vediamo  nel Sinai egiziano ; nei gruppi salafiti risvegliatisi in Tunisia sin dall’inizio del 2013  con l’assassinio due leaders dell’opposizione laica, Chokri Belaid e Mohamed Brahmi, e l’invio di centinaia di foreign fighters in Siria nelle file del Daesh; nelle operazioni di Boko Haram in Nigeria, dei gruppi terroristici dell’Azawad in Mali, di quelli operanti tra Chad, Niger, Libia e Algeria; nel susseguirsi di stragi in Kenia rivendicate dagli Shebab.

 

E’ sterile dibattere su errori e superficialita’ nelle vicende irachene e siriane di quest’ultimo decennio. Molto e ‘dipeso dalla pericolosa propensione europea, e italiana, a mettere la sicurezza internazionale e la prevenzione delle crisi a livelli molto bassi delle priorita’ politiche.

 

Persino l’Amministrazione Obama, che aveva fatto del disimpegno militare nelle aree di crisi la sua vera bandiera, si trova obbligata a rimettere “booths on the ground” in Iraq, e  in Siria. E si trova costretta a farlo in condizioni ben piu’ difficili di quelle che esistevano nel 2011,quando aveva deciso di ritirare le forze Armate dall’Iraq. Al punto di dover accettare adesso le garanzie  sullo status delle forze che aveva formalmente respinto  tre anni fa perche’ insufficienti.

 

L’abbandono da parte dell’Occidente dell’insorgenza anti-Assad, che nel 2011 era ancora relativamente incontaminata da Al Qaeda, si sta traducendo nella incondizionata conferma di Assad: ricetta per rendere cronica la destabilizzazione di un Paese nel quale il due per cento della popolazione e’ perita soprattutto sotto i bombardamenti, e per meta’ e’ sfollata o fuggita all’estero.

 

L’uscita delle forze americane dall’Iraq nel 2011 ha poggiato su previsioni estremamente ottimistiche -e dobbiamo evitare la ripetizione di questa vicenda in Afghanistan- circa l'”empowerment” dell’esercito iracheno. Questa “falla” ha grandemente contribuito all’affermazione dello Stato Islamico.

 

Un rapporto commissionato nel 2010 dal Pentagono, che prevedeva esattamente quanto e’ poi accaduto puntualmente  quando i marines hanno lasciato l’Iraq. Le capacita’ operative, la formazione, il reclutamento, l’intelligence, il comando e controlIo delle Forze irachene era dato gia’ nel 2010 dal Pentagono come fallimentare, assolutamente non in grado di sostituire le Forze statunitensi. I comandi iracheni venivano etichettati quali centri di corruzione e di furti . Ma tutto cio’ contrastava con altre priorita’, ed era meglio non parlarne troppo. Quattro anni dopo si e’ dovuto constatare che cinquantamila soldati iracheni, numero equivalente a meta’ dell’intero Esercito italiano, gravavano sul bilancio dello stato iracheno ma non esistevano se non nei  libri paga dove altri attingevano.

 

Il disastro verificatosi nella ricostituzione della sicurezza irachena ,di cui e’ simbolo la conquista di Mosul da parte del Daesh il 12 giugno 2014 , e’ pari soltanto ad un altro fallimento che, non a caso, sta pesando enormemente sulla crisi libica e, proprio da quando l’Iisis ha raggiunto l’apice del suo successo a Mosul in Iraq, sostiene una parallela affermazione dello Stato Islamico in Libia.

 

E’ opinione diffusa che la causa di tutti i mali attuali della Libia sia stata l’intervento occidentale contro Gheddafi e la sua scomparsa il 20 ottobre 2011. Non ne sono tanto sicuro .

 

Evitando di proteggere la popolazione libica dalla repressione di Gheddafi si sarebbe risparmiata alla Libia una guerra civile come quella che ha distrutto completamente la Siria? Una guerra che ha incrinato a nostro svantaggio fragilissimi equilibri sui quali potevamo contare in Medio Oriente. Sono invece convinto che tra fine 2011 e autunno 2012 i Paesi intervenuti in Libia abbiano sottovalutato la deriva del Paese in senso fondamentalista che adesso si e’ purtroppo realizzata.

 

Distolti da altre priorita’, come la crisi nell’eurozona, europei e americani si sono impegnati per ricostituire un quadro di sicurezza in Libia solo col contagocce. Anziche’ esigere dai diversi governi transitori succedutisi per tutto il 2012 uno sforzo immediato per il controllo dei confini terrestri e marittimi, l’Occidente ha chiuso gli occhi. Invece di avviare programmi massicci per smobilitare 162.000 miliziani, attivi in una miriade di entita’ grandi e piccole, legate a gruppi e personaggi interessati esclusivamente a rafforzarsi a livello locale si e’ guardato altrove; abbbiamo usato guanti di velluto ; siamo stati condizionati da a un “complesso post coloniale” ampiamente strumentalizzato dai libici.

 

“Ownership libica”, “priorita’ del business”, forniture petrolifere erano piu’ importanti di una decisa strategia per la sicurezza, considerata un fastidioso “optional”, impopolare in Europa. Le elezioni politiche del luglio 2012, pur svoltesi nella direzione di una Libia sostanzialmente unitaria e democratica, rappresentavano l’ultimo atto positivo prima della accelerazione disgregatrice. Su quest’ultima agivano gli islamisti. Essi traevano un formidabile incoraggiamento ideologico e materiale da quanto stava avvenendo in Egitto con la Presidenza Morsi. Verso la fine del 2012 il tempo era praticamente scaduto. L’assassinio dell’Ambasciatore americano Chris Stevens a Bengasi nel settembre 2012 a opera di Ansar al Sharia preannunciava drammaticamente quanto sta oggi accadendo.

 

Cosa e’ mancato tra la fine del 2011 e l’autunno 2012? Quale ”lezione “ dobbiamo trarne nel confrontare oggi l’Isis in Libia, e in Europa?

Mentre l’amministrazione americana e i Governi europei, tra cui il nostro, si concentravano sulla distruzione dell’arsenale chimico in Libia, sfuggivano pero’ al controllo ingenti quantitativi di armamenti . Il Segretario alla Difesa , Gates, calcolava che piu’ di 20.000 missili anti-aerei – Manpads – fossero spariti per esser poi contrabbandati in tutto il Medio Oriente e l’Africa. E’ assai eloquente la storia del mancato disarmo delle milizie: il problema dei problemi che si e’ costantemente aggravato e ostacola gravemente la praticabilita’ di un intervento militare veramente risolutivo contro lo Stato islamico.

 

Mustafa El Sagezli, Vice Comandante della Brigata Martiri del 17 Febbraio, una delle piu’ importanti milizie ribelli, si era guadagnato una vasta popolarita’ sin dall’avvio della rivolta a Bengasi reclutando i primi gruppi dell’insorgenza armata. Sagezli era stato uomo d’affari dopo essersi laureato all’Universita’ dello Utah e alla London School of Economics. Avvertiva il bisogno di dare un futuro ai giovani che aveva guidato durante la ribellione al regime. Sapeva perfettamente che le milizie riflettevano le spaccature tribali, le appartenenze regionali, il grado di religiosita’. Sagezli vedeva nella integrazione delle milizie nella vita civile l’essenza della stabilizzazione libica. Quando chiedeva ai suoi giovani “cosa sognate per il vostro futuro?”, le loro risposte erano semplici: ottenere una borsa di studio, iniziare un’attivita’ economica, entrare nelle polizia o nell’esercito regolare, avere i mezzi per creare una famiglia. Le risorse economiche c’erano, essendo stati scongelati miliardi di dollari dopo la rimozione delle sanzioni. Nominato a capo della Commissione per gli ex combattenti, Sagezli  si scontrava con due ordini di ostacoli: riluttanza  del Governo transitorio ad impegnarsi veramente, cosi’ che le erogazioni ai comandanti delle milizie incoraggiavano a mantenerle in funzione, invece di smobilitarle ; le riserve della Casa Bianca a sostenere un incisivo programma di smobilitazione, ponendo condizioni irrealizzabili. Lo stesso programma di riacquisto delle armi in circolazione divenne , ad avviso di alcuni esperti, un boomerang data l’assenza di controlli sui confini che consentivano di intensificare, anziche’ di ridurre i traffici di armi.  Situazione che continua ad esistere.

 

 

Se la stabilita’ del Grande Mediterraneo nel port Acordo nucleare con l’Iran rappresenta un interesse vitale per l’Ue e per l’Italia, sono ineludibili alcune considerazioni.

 

  1. La prima e’ sui principi di fondo della politica estera e di sicurezza. L’Europa non si puo’ permettere di “aspettare l’America”. In Siria l’inazione nel corso del 2012/2013 non e’ certo stata determinata solo dall’Europa. In Libia abbiamo sempre saputo che le responsabilita’ europee non avrebbero ottenuto supplenza alcuna da oltre Oceano. In Mali e nella Repubblica Centrafricana i francesi l’hanno capito e ne hanno rapidamente tratto le loro conclusioni, intervenendo tempestivamente in via nazionale e promuovendo parallelamente un’ampia missione di pace africana e delle Nazioni Unite.

 

2.La seconda considerazione e’ collegata all’auspicio ribadito nei giorni scorsi in una sua intervista da Jurgen Habermas , affinche’ l’Europa metta in campo la sua potenza a livello mondiale per “civilizzare il capitalismo e instaurare i diritti umani”.

 

Civilizzare il capitalismo. La pressoche’ totale finanziarizzazione dell’economia, la crescente polarizzazione della ricchezza in capo a gruppi sempre piu’ ristretti, autoreferenziali e “unaccountable”, minano alla base l’indispensabile sostegno delle societa’ europee ad un ruolo globale dell’Europa che sia realmente esercitato nell’interesse collettivo di cittadini europei.

 

La grande maggioranza degli europei vede ora questo “ruolo globale” per quello che innegabilmente é: esercitato  nell’interesse pressoché esclusivo delle solite banche, delle multinazionali immuni dalla tassazione lussemburghese, dei potentati politico-affaristici che influiscono direttamente, in diversi casi, come in Italia, sulle scelte della politica di cooperazione allo sviluppo (la nuova Legge sulla Cooperazione viene gia’ definita la “Bengodi della licitazione privata”) e perfino sulle scelte  di politica estera e di sicurezza, vedasi l’incredibile vicenda Maro’.

 

In questo senso il monito di Jurgen Habermas all’Europa –  “Civilizzare il capitalismo e instaurare i Diritti Umani” – riguarda in modo speciale, per l’Europa e per l’Italia, l’azione nel Grande Mediterraneo.

 

3.La mia terza osservazione riguarda priorita’, contenuti, e  proposte dell’azione italiana a Bruxelles e nelle capitali mediterranee, per la regione che, vorrei sottolinearlo ancora una volta, deve costituire la priorità massima per la politica estera del nostro Paese. Distinguiamo tra lungo e breve termine. Su entrambi dobbiamo avere obiettivi chiari e raggiungibili.

 

Riconoscendo l’inadeguatezza delle prime risposte europee alle “Primavere Arabe” del 2011,dovremmo aver tutti chiaro che esse hanno segnato una tappa di un lungo e incerto percorso che puo’ essere rovesciato in ogni momento, verso pluralismo, stato di diritto, diritti umani. Ma quanto ci e’ voluto, si interrogano alcuni autorevoli studiosi arabi (Marwan Muasher, ad es.), perche’ le rivoluzioni europee del 1848, o i movimenti anticomunisti est europei degli anni ’70, potessero finalmente sprigionare la loro forza trasformatrice? L’obiettivo pluralista e democratico verso l’affermazione dello Stato di Diritto deve quindi continuare a guidare  la nostra azione :nella consapevolezza che si tratta di uno sforzo di lungo periodo. Esso deve tradursi in politiche di “partenariato” ben più decise, con ben maggiori risorse e impulso politico di quelle che sono state finanziate dall’Unione per il periodo 2014-2020.

 

Se gli equilibri tra i 28 Stati Membri continueranno ad impedire una correzione di rotta nella politica mediterranea, rispetto a quella del Partenariato Orientale, l’Italia deve avviare con decisione delle “cooperazioni rafforzate”.

 

Con la Francia abbiamo avuto una concertazione stretta tra Quai d’Orsay e Farnesina, sul post-Primavere Arabe. Lo stesso dovremmo fare con Spagna, Malta, Grecia, Cipro, Israele ,per creare un “nucleo” di paesi attivi a Bruxelles attorno a una precisa strategia di contrasto e prevenzione del fondamentalismo, della radicalizzazione e del terrorismo jihadista nel Mediterraneo, specialmente in Libia , e in Europa.

 

Un quadro di piu’ untensa e strutturata collaborazione regionale deve riguardare il Mediterraneo Orientale. L’Italia ha tutte le carte in regola per promuoverla attivamente. Grecia, Cipro, Israele, Egitto, Turchia sono interessati a collaborazioni per lo sfruttamento delle ingenti risorse di idrocarburi scoperte negli ultimi anni, alla realizzazione di infrastrutture utili alla differenziazione degli approvvigionamenti energetici italiani ed europei. La situazione di sicurezza, la crisi migratoria, la guerra al terrorismo costituiscono altrettante emergenze che richiedono un qaudro di stretta cooperazione regionale.

 

I programmi europei devono riguardare: a) oltre a inclusivita’ e pluralismo politico, i bisogni sociali, i servizi essenziali, lo sviluppo e l’occupazione; b) l’educazione, con attenzione alla tolleranza e al dialogo; c) la generazione di risorse finanziarie in raccordo con le organizzazioni multilaterali di cui l’UE e’ parte; d)la focalizzazione sui programmi, anzichè sulle persone di riferimento; e) l’incentivazione al consolidamento delle forze politiche, spesso disperse, interessate alla democrazia e allo Stato di diritto.

 

  1. Quanto precede dovrebbe segnare obiettivi di lungo termine. Al tempo stesso le iniziative immediate e urgenti devono andare nella stessa direzione. Nelle crisi piu gravi, in Siria e in Iraq, la strategia sbagliata e’ quella di una apodittica militarizzazione del conflitto che non poggi su solide, condivise, credibiIi basi politiche di inclusivita’, pluralismo, transizione a Damasco e a Baghdad. E’ su questi aspetti che si devono ottenere azioni coerenti, immediate, da Assad, Al-Abeidi, Rouhani, prima di addentrarci ancor piu’ nel conflitto sunnita-scita, che deborda ormai ovunque anche sulle nostre porte di casa.

 

 

 

©2024 Giulio Terzi

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