Discorso “Il destino geopolitico dell’Italia: le metamorfosi della diplomazia”

Trento, 05 Luglio 2014

EVENTO “LE METAMORFOSI DEL GLOBO”

NODO DI GORDIO – VOX POPULI 

Il destino geopolitico dell’Italia: le metamorfosi della diplomazia

 

Un saluto cordiale a tutti Voi, Al Sen. Sergio Divina, la cui attività in seno alla Commissione Difesa del Senato è di particolare importanza per il nostro sistema di sicurezza; all’On. Riccardo Migliori, che ho avuto il piacere di incontrare nei miei precedenti incarichi apprezzandone sempre l’autorevolissimo impulso dato alla dimensione parlamentare dell’OSCE, dimensione che penso debba assumere un profilo ancor più netto e una sua accresciuta “gravitas” valoriale e politica per ricostruire rapidamente un’architettura europea di sicurezza cooperativa “terremotata” da scosse al di sopra del sesto grado dopo la crisi Ucraina e l’annessione della Crimea alla Federazione Russa; alle autorità del Consiglio Regionale, la cui presenza dimostra il concreto interesse e il contributo intellettuale di valore che questa Regione da alla formazione delle linee di politica estera dell’Italia; al chairman del think-thank Il Nodo di Gordio Daniele Lazzeri e al Presidente del Centro Studi Vox Populi Ermanno Visintainer, organizzatori di questo stimolante incontro.

Sono grato a “Il Nodo di Gordio” per l’invito a questo dibattito; ho ricevuto l’ultimo numero della Rivista e desidero complimentarmi per la profondità e interesse degli argomenti che vi sono trattati. C’è un enorme vuoto informativo nel nostro Paese sulla politica estera. E anche lo spazio, esiguo, che viene coperto è spesso inquinato da pregiudizi, strumentalizzazioni, leggerezze di analisi e proposte. Lo dice bene Lazzeri quando parla nel suo editoriale di “silenzio assordante dell’Europa”. In Italia il silenzio, la scarsa o cattiva informazione costituiscono una pesante zavorra nei processi di comunicazione all’opinione pubblica persino sulle questioni più cruciali per la nostra sovranità e per i nostri interessi nazionali. Di conseguenza, le scelte della politica si agganciano ad ancoraggi deboli: sono facilmente condizionate da interessi specifici, talvolta estranei o persino contradditori rispetto a quelli ben più ampi del nostro Pese e della società italiana nel contesto globale. Gli esempi prenderebbero tutto questo convegno. Vanno dalle nostre azioni e soprattutto inazioni in Europa, nel Grande Mediterraneo – the “Great Sea” come recita un’invocazione ebraica e intitola il suo lavoro David Abulafia – al pauroso trampolino che abbiamo lasciato al Jiahdismo in Siria e in Iraq, sino al caso Marò. Quanti conoscono i fatti, i motivi dei silenzi e delle tesi pilotate dalla grande informazione, gli interessi protetti, i gravi riflessi sulla proiezione internazionale del Paese?

Il tema di questo workshop, “le Metamorfosi del globo”, è di estrema attualità: le trasformazioni appassionano da sempre gli studiosi di relazioni internazionali, e in questi giorni di Luglio 2014 è come se la geopolitica si fosse riaffacciata prepotentemente dentro casa nostra, anche se non tutti lo notano, presi come siamo da tortuose discussioni sugli “zero virgola” di crescita che i “nuovi corsi” europei dovrebbero assicurare, dalle riforme vere o presunte di corruzione, giustizia e burocrazia, e dalle mirabolanti attese per la nostra Presidenza del Semestre Europeo. L’Europa e l’Italia si trovano alla confluenza di “archi di crisi” che toccano la dimensione euroatlantica come nessuna altra parte del mondo: il sistema continentale di sicurezza, non nascondiamocelo, è definitivamente compromesso, e va reinventato. Protezione delle minoranze nazionali attraverso l’impiego della forza, contrapposizione tra allargamento dell’UE e dell’Unione Euroasiatica, e utilizzo dell’energia come nuova “arma di distruzione economica di massa” rappresentano le gigantesche sfide che noi Europei abbiamo dinnanzi. È l’Europa che deve affrontarle, contando certamente sul sostegno ma non più sulla leadership esclusiva e incondizionata di Washington. Più a Sud, nel Grande Mediterraneo da Gibilterra al Golfo, ci sono ancora le onde lunghe delle Primavere Arabe a colpire le nostre sponde. La crisi sirio-irachena, alimentata dall’espansionismo iraniano e dall’opportunistico sostegno Russo, sta trasformandosi in un’enorme repressione antisunnita tra la regione dell’Anbar e il deserto siriano: Assad insegna genocidio ad Al Maliki, e L’Occidente e l’Italia si devono assumere i costi di questo immane disastro umanitario, con flussi di rifugiati che invadono il Mediterraneo non solo da Sud ma ora in un impressionante crescendo anche da Est. Troppo facile lamentare l’assenza dell’Europa senza cercare di comprenderne i “perché”. È vero che l’UE è stata assente e incerta nella crisi siriana, tardando colpevolmente – anche a causa della “timidezza” di Washington – nell’agire in sostegno dell’Opposizione siriana quando le infiltrazioni Jihadiste potevano essere controllate. Tuttavia, l’evidente è sotto gli occhi di tutti: la verità è che nell’ “era Ashton” le politiche estere europee si sono *rinazionalizzate*… Riuscirà Federica Mogherini a determinare, con il suo auspicabile arrivo a Bruxelles, una drastica inversione di tendenza…? Un compito sovrumano, che ha fatto scrivere ad alcuni editorialisti che sarebbe assai più utile all’Italia un Commissario economico anziché la poltrona di Mrs.Pesc… Discussione accademica, però, perché i punti cardinali della propria politica estera, di sicurezza e di difesa – in Europa, nel Mediterraneo, in Africa – l’Italia li deve assolutamente condividere con i Paesi che “hanno” una vera politica estera. Non ha alcun senso “assopirci” nell’attesa di “un’Europa che non c’è”… e che potrebbe non esserci mai, se gli interessi della Germania continueranno a valere il doppio di quelli degli altri partner UE.

Alla metamorfosi della geopolitica deve senz’altro corrispondere una metamorfosi della diplomazia italiana ed europea. Tuttavia io credo che essa richieda sentieri qualitativamente e concettualmente diversi da quelli che hanno impegnato i “policy planners” nelle due principali trasformazioni delle relazioni internazionali del secondo dopoguerra: la prima, con l’epocale ampliamento di rapporti seguito al processo di decolonizzazione degli anni Sessanta; la seconda trasformazione, enfatizzata dalla “governance” multilaterale, dalla creazione di nuove organizzazioni e strumenti per la sicurezza collettiva, e dalla crescente attenzione per lo sviluppo sostenibile e la difesa dei diritti umani. Obiettivi e organizzazione si sono affinati di conseguenza. La diplomazia italiana, da sempre orientata all’orizzonte atlantico ed europeo, ha da almeno quindici anni accentuato il suo impegno nella dimensione economica e culturale. La Farnesina è oggi una delle amministrazioni che dispone di potenzialità significative nel contribuire alla crescita economica e all’internazionalizzazione dei comparti produttivi, aldilà della tradizionale “mission” politica e di sicurezza. “Promuovere il Sistema Paese” è forse una definizione abusata, ma rappresenta la realtà.

I sentieri della diplomazia devono accompagnare oggi metamorfosi ancor più impegnative. Quale credibilità e ruolo riusciremo ad assicurare all’Occidente nella prima metà di un secolo che segna per l’umanità punti di svolta irreversibili e il porsi di sfide planetarie? Che peso deve avere la diplomazia nell’affermare legalità, Stato di diritto, libertà individuali, di religione e di pensiero, diritti umani? Deve avere la diplomazia responsabilità primarie in ambiti apparentemente fuori dal suo “core business”, ma intimamente connessi alla reputazione del Paese, come la lotta alla corruzione, le carenze di trasparenza nella cosa pubblica e nell’informazione al pubblico? La condivisione culturale e “politica“ del patrimonio che, con qualche semplificazione, si può definire “acquis” dell’Occidente e dell’Europa, non deve fare della diplomazia e del Ministro che la guida l’avvocato e il promotore convinto di comuni valori e interessi…?

Ricordo come nel lontano 1991 alcuni osservatori avevano previsto che la fine del Patto di Varsavia avrebbe automaticamente comportato la fine dell’Alleanza Atlantica. La stessa tipologia di analisti sta alimentando un dibattito sull’ “inarrestabile declino dell’Occidente”. Si evocano nell’ordine: le incertezze americane e europee in Siria, lo stallo dell’iniziativa Usa in Medio Oriente, le incognite sul negoziato nucleare iraniano, l’annessione russa della Crimea con il protagonismo Russo, le rivendicazioni territoriali di Pechino nel Mar della Cina. L’Occidente è veramente in situazione di stallo, con una diplomazia incapace di influire sulla realtà mondiale nel medio e lungo periodo? In quali contesti dovremo impegnarci a essere “centrali”? Possiamo intuirlo analizzando pur brevemente sei scenari globali che abbiamo dinnanzi.

In primo luogo, una *rivoluzione demografica* senza precedenti nella storia dell’umanità ha portato la popolazione del pianeta in un solo secolo da 1,3 a 9 miliardi di esseri umani. La crescita è polarizzata nelle regioni maggiormente esposte a tensioni e scarsità di risorse;

in secondo luogo, una *deriva climatica ormai irreversibile*, come indicano tutti gli ultimi rapporti ONU. Il riscaldamento atmosferico è all’origine di sempre più frequenti disastri naturali, di enormi carenze idriche e di migrazioni massicce. Il degrado ambientale, l’inquinamento delle aree urbane dove vive più della metà della popolazione mondiale, la desertificazione e la scomparsa di foreste toccheranno in questo secolo livelli incompatibili con la sopravvivenza dell’intero ecosistema;

in terzo luogo, una *crescita economica apparentemente infinita ma in realtà illusoria*, insostenibile per l’Umanità. Basti un esempio: agli attuali ritmi di crescita del Paese, il PIL pro-capite cinese potrebbe raggiungere la parità con l’odierno PIL pro-capite americano – oggi superiore di ben 9 volte a quello cinese – in soli 40 anni. Entro il 2025 la Cina potrebbe superare in PIL la somma di tutti i Paesi del G7. Se già il PIL cinese attuale fa di quel Paese il principale “emettitore” di CO2 e di particelle inquinanti nell’atmosfera, appare chiara l’estrema urgenza di sterzare verso diversi modelli di crescita. Con ogni cautela verso previsioni a così lungo termine che prescindono da rivolgimenti politici, recessioni e cicli economici, il raddoppio dell’economia cinese ogni sette/otto anni e la prospettiva di un suo PIL decuplicato in quarant’anni pone inquietanti interrogativi quanto alla “tenuta” di modelli mirati esclusivamente alla crescita anzichè alla sostenibilità ambientale e sociale;

quarto, le *diversità nello sviluppo umano* tra “the West… and the Rest”. Resteranno in ogni caso fondamentali differenze anche nel lungo termine tra “Cindia” e area OCSE negli standard di vita. Non è irrilevante che Cina e India siano ancora oggi al 101° e 134° posto nell’indice sullo sviluppo umano stilato da UNDP, mentre i Paesi Occidentali occupano le prime 25 posizioni, e la Russia la 66°. Un dato che conta più di molti altri nel dimostrare la “vitalità” dell’ Occidente;

il quinto scenario riguarda l’economia e la società. Si allarga – come titola un saggio di De Rita e Galdo – il divario tra “Il popolo e gli Dei”, ovvero tra il 99% e l’1% della popolazione, come accusano movimenti tipo Occupy Wall Street. È questo l’altro versante della “rivoluzione” che sta attraversando l’economia mondiale: l’inarrestabile concentrazione della ricchezza e delle attività finanziarie è accompagnata dal regresso della “middle class” e da segnali di forte impoverimento per le fasce basse di reddito. La concentrazione della ricchezza a ritmi così elevati anche nei periodi di recessione costituisce come sappiamo un trend particolarmente dannoso: comprime l’investimento produttivo a vantaggio di quello speculativo, destabilizza la rappresentatività democratica, in quanto le lobby finanziarie sono infinitamente più forti delle altre categorie organizzate che rappresentano interessi settoriali. Merita perciò riflettere sull’importante lavoro dell’economista francese Thomas Piketty, “Il capitale nel ventunesimo secolo”: ne è scaturito un dibattito che dà la temperatura di un forte malessere, causato dall’inarrestabile concentrazione della ricchezza su scala mondiale;

il sesto e ultimo scenario ci porta alla società dell’informazione e della conoscenza costituisce il motore più potente dello sviluppo globale. Un’enorme forza per il mondo Occidentale, dove ancora negli ultimi anni le spese per la scienza e la ricerca sarebbero state più della metà del totale mondiale, e che si sta diffondendo nelle economie emergenti con progressi rapidissimi. In India ogni anno si laureano due milioni e mezzo di studenti, ma le università americane e europee continuano ad attrarre centinaia di migliaia di cinesi e di indiani. La leadership occidentale nella società della conoscenza e dell’informazione non è assicurata tanto dal possesso e dal continuo avanzamento di tecnologie, di reti, di scoperte scientifiche, ma dal clima di libertà nella ricerca, di rispetto della dignità della scienza e dell’espressione del pensiero umano. Sin dal Rinascimento l’universo della scienza collega valori dell’uomo e progresso in uno stretto rapporto. Nel frattempo però le tecnologie dell’informazione tendono anche a esasperare le conflittualità: utilizzo dei “metadati”, cybersecurity, intrusioni esponenzialmente accresciute nella Sovranità altrui per destabilizzare politicamente (Ucraina), economicamente (Estonia), militarmente (Siria) paesi ritenuti ostili, o per carpire progetti industriali o danneggiare la concorrenza, sono ormai all’ordine del giorno. Il CSIS di Washington ha calcolato che i danni complessivi prodotti da attacchi cibernetici si situino tra i 375 e i 575 miliardi di dollari annui, dei quali circa 9 miliardi solo in Italia.

In definitiva, viviamo in una realtà “liquida”, condizionata dalle sei sfide globali che ho richiamato. C’è un’Agenda comune dei Paesi “revisionisti”, le nuove potenze mondiali? Russia, Cina e Iran coltivano una grande visione per un nuovo “ordine mondiale alternativo” a quello costruito attorno ai valori Occidentali? O più semplicemente sono mossi dall’interesse ad affermare la propria Sovranità e il dominio sulle rispettive regioni, per massimizzarne i benefici commerciali, economici e tecnologici? Se così è, l’Occidente *deve* accentuare l’ “engagement”, rafforzare il sistema internazionale di rapporti basati sui valori liberali e democratici, e attuare una strategia coerente nelle alleanze, nelle istituzioni multilaterali, nella diplomazia.

Gli Stati Uniti e l’UE sono parsi in affanno in un 2014 che sembra aver riportato le rivalità geopolitiche al centro delle relazioni internazionali. Gli occidentali ritenevano tramontata la stagione dei confronti territoriali, dell’uso della forza, degli “zero sum games”. Multilateralismo e governance globale erano diventati il “playfield” del post-Guerra Fredda. La speranza che fosse tramontata la “vecchia geopolitica” si alimentava – come ha scritto recentemente Walter Russel Mead – con il trionfo del capitalismo liberale sul comunismo. Ora dobbiamo invece fare i conti con un “hard power” accresciutosi esponenzialmente; con “Potenze revisioniste” che non si sono mai completamente adattate agli equilibri usciti dal post Guerra Fredda e che cercano di cogliere tutte le occasioni per modificarli anche con la forza.

Alla fine della Guerra Fredda sembrava che le grandi incognite geopolitiche avessero trovato risposta adeguata con la sistemazione di questioni legate a confini territoriali, basi militari e sfere d’influenza reciproche. L’ambito del confronto evolveva dalla “contrapposizione ideologica” est/ovest verso l’universale accettazione della democrazia. Le minacce di uso della forza si azzeravano nei meccanismi di risoluzione dei conflitti e nell’applicazione del diritto internazionale. Il “dividendo della pace” consentiva drastici tagli alla spesa militare. Invece, l’11 settembre l’Occidente è ripiombato nella paura. La guerra al terrorismo e all’ “Axis of Evils” della Presidenza Bush si è tradotta nelle operazioni in Afghanistan e in Iraq, intervenendo senza alcuna timidezza nell’utilizzo della forza.

Con l’arrivo alla Presidenza, Obama ha tentato una netta sterzata, con un’agenda assai ambiziosa: nucleare iraniano; conflitto Israelo Palestinese; cambiamenti climatici; partenariato strategico con i Paesi più vicini all’America nel Pacifico e con l’Unione Europea; “reset” del rapporto con Mosca; rapporti con il mondo Islamico; diritti umani, con particolare riferimento a diritti degli omosessuali; ristabilimento di un clima di completa fiducia – dopo le crepe verificatesi per l’intervento in Iraq – tra Americani e Europei; fine della presenza militare in Iraq e Afghanistan; contenimento della spesa militare.

Non si può certo dire che questo “decalogo” Obamiano non corrispondesse interamente alle aspettative europee, e che non sia pienamente condivisibile. Il problema è però nell’impatto che il “ritorno della geopolitica” sta producendo sull’impianto “valoriale” lanciato da Obama nel suo primo mandato, e ora posto sotto attento scrutinio dai molti che trovano la sua politica estera non sufficientemente “assertiva”.

Gli strumenti di cui la diplomazia occidentale può avvalersi bastano a stabilizzare l’Ucraina? Possono fermare i conflitti settari in Medio Oriente? Indurranno Cina, Giappone, Filippine, Vietnam risolvano le loro controversie attraverso l’arbitrato e non con la forza? Esiste fra Cina, Russia e Iran un interesse comune di portata strategica che non sia soltanto quello di erosioni opportunistiche e tattiche di singole posizioni dell’Occidente? La Russia teme un eccessivo potere regionale cinese; Russia e Iran hanno l’esigenza di prezzi alti dell’energia, la Cina esattamente il contrario; l’instabilità in Medio Oriente, utile all’Iran, è pericolosa per la Cina e della Russia; ma l’Iran ha ottenuto un insperabile rilancio del mondo sciita dall’invasione dell’Iraq, e se ne avvale a piene mani in Siria e in Libano, mettendo sotto pressione l’ampia maggioranza sunnita in tutto il Medio Oriente.

Quindi, l’Occidente deve allora avere un approccio realista e pragmatico, oppure imperniato sulla sicurezza cooperativa e sull’affermazione planetaria dei diritti umani e delle libertà fondamentali? Io credo possa esistere un “blend” di questi fattori, un giusto mix di tutti questi elementi, che vanno a costituire “il perimetro” entro il quale deve muoversi l’Occidente.

Se consideriamo tre dimensioni essenziali, quella economica, quella militare e quella scientifico-culturale, dovremmo esser portati a ritenere che il XXI sarà il Secolo della “leadership mondiale condivisa ” tra l’Occidente e l’Asia, con queste precisazioni:

·         analizzati alla lente della geopolitica, gli equilibri – o squilibri – globali non potranno che essere di tipo “bipolare”, con due “masse”, quella Eurotlantica e quella cinese, contrapposte nella definizione dei rispettivi interessi economici, territoriali e di sicurezza;

·         si tratterà ovviamente di un bipolarismo imperfetto, dato che con queste due “masse” dominanti continueranno a interagire attori per nulla secondari come Russia, India, Brasile e l’Islam nelle sue diverse e complesse configurazioni;

·         se i dati del Prodotto Interno Lordo mostrano una tendenza occidentale in progressivo ridimensionamento, ve ne sono altri legati allo sviluppo umano, all’innovazione tecnologica e alla scienza che fanno prevedere una tenuta di competitività del “modello occidentale”;

·         capacità militari e “soft power” continueranno a vedere l’Occidente in vantaggio anche nel lungo periodo, e questo non solo perché il bilancio per la Difesa dell’area Atlantica è superiore al totale degli altri principali Paesi, ma soprattutto perché la capacità di aggregazione USA è per natura stessa degli interessi di sicurezza che Washington difende infinitamente superiore a quella dei principali “competitors”. Gli USA sono parte di un sistema di alleanze che li lega a una sessantina di Paesi, la Cina a uno solamente, la Corea del Nord; l’Iran alla Siria e all’Iraq; la Russia a otto paesi.

 

Allora, dinanzi alle “sei sfide” che ricordavo all’inizio, il riorientamento della diplomazia occidentale dovrà basarsi su una ritrovata volontà ad agire, e attrezzarsi per combattere i cambiamenti climatici; adottare regole di controllo per i mercati finanziari e misure fiscali che assicurino una più equa ripartizione della crescita e dei redditi tra le diverse fasce di popolazione; contrastare con vigore la corruzione, la criminalità economica e quella organizzata; integrare pienamente l’economia Euroatlantica in un sistema di regole condivise; uscire dal sogno a occhi aperti che si possa continuare a pensare al “dividendo della pace” fine a se stesso, perché gli strumenti di Difesa devono essere rapportati all’entità delle crisi in atto e a quelle possibili, e l’intero apparato di Difesa europeo va seriamente adeguato, integrato e ammodernato; far diventare finalmente una realtà la politica estera europea, perché le lezioni apprese con la tragedia siriana, con il suo ampliarsi all’intero teatro iracheno, e le distruzioni, le catastrofi umanitarie e migratorie ad alto impatto sui nostri Paesi che ne sono derivate, dimostrano come l’Occidente debba assumersi ben maggiori responsabilità, con tempestività di iniziativa, con impiego di risorse, con volontà politica assai diversa da quanto non sia avvenuto negli ultimi tre anni.

Moltissimo – molto più di quanto può sembrare a prima vista – della risoluzione di queste complesse problematiche è affidato alla Diplomazia, e al suo coraggio di esprimere e sostenere la cultura politica dell’Occidente e i valori di libertà e di tolleranza che le sono propri.

Non sempre l’interesse nazionale di lungo periodo ha prevalso su considerazioni di parte o di convenienza immediata. Non sempre la nostra Sovranità è stata tutelata com’era nostro precipuo dovere fare. Non sempre la diplomazia italiana ed europea si è mostrata attiva e coraggiosa nella tutela dei diritti umani, nel difendere le minoranze religiose, nell’influire con decisione nei processi di transizione verso la democrazia e lo Stato di Diritto di paesi in via di sviluppo. Ci sono cambiamenti importanti di mentalità, di metodi, di strumenti operativi e di formazione – basti pensare all’utilizzo dei social media – che sono necessari per i diplomatici di questa e della prossima generazione.

Vorrei concludere ricordando la puntualissima domanda con la quale si è aperto questo panel: “Dove sono le Termopili”…? Le nostre Termopili – a mio avviso, alla luce di quanto ho sopra descritto – non sono, in questo scenario mondiale assai fluido, solo più di tipo meramente “geografico”. Le Termopili che impegnano l’Europa oggi sono spazi di tipo politico, legati alla difesa degli straordinari valori alla base del DNA stesso dell’UE: democrazia, partecipazione al voto, difesa dei diritti umani – universali, indivisibili e non negoziabili – e valorizzazione del ruolo della donna, lotta incondizionata alla corruzione, capacità di coniugare accoglienza umanitaria dei profughi e difesa delle frontiere dall’immigrazione illegale, lotta ai cambiamenti climatici, innovazione tecnologica e ricerca scientifica d’avanguardia…

Questi sono i veri punti di forza dell’occidente, che qualora affermati con decisione sono anche in grado essi stessi di creare le migliori condizioni per garantire il flusso di investimenti esteri nella nostra area di influenza, coniugando così affermazione dello Stato di diritto e interessi concreti; la competizione indiscriminata e le sfide planetarie nelle quali siamo immersi non ci permettono più di attendere “nell’angolo”, di evitare il confronto intellettuale, di essere remissivi nell’affermazione dei valori che ci appartengono, o – peggio ancora – di lasciare i problemi nel cassetto nella speranza che essi diventino meno urgenti.

Grazie a Voi tutti per l’attenzione, e buona prosecuzione dei lavori.

 

©2024 Giulio Terzi

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