STRAGI DI CIVILI NEL MONDO: NO “COW-BOY”, MA… ABBIAMO LA “RESPONSABILITA’ DI PROTEGGERE”?


STRAGI DI CIVILI NEL MONDO: NO “COW-BOY”, MA… ABBIAMO LA “RESPONSABILITA’ DI PROTEGGERE”? Le crisi provocate da terrorismo, da repressioni sanguinose, dal ricorso alla forza per affermare spazi d’influenza, e per scardinare una legalità faticosamente costruita nel tempo, hanno sempre più marcato il presente decennio: i massacri avvenuti durante le Primavere Arabe proseguono ad esempio in una guerra civile che ormai molti considerano vero e proprio genocidio dei Siriani sunniti, che sempre più colpisce le popolazioni civili, e le componenti più deboli tra esse, ovvero bambini, donne e anziani. È nelle fasi critiche delle transizioni del potere e della ricostruzione statuale che maggiormente si constata la debolezza delle Istituzioni: perciò la Giustizia Transizionale – Transitional Justice – diviene così importante. Come ha recentemente affermato uno dei protagonisti della Truth and Reconciliation Commission attivata in Sud Africa, George Bizos, la Commissione ha discusso una miriade di casi contribuendo a rendere giustizia alle vittime dell’apartheid. “Ma da diversi anni ha constatato Bizos viene fatto poco. Interferenze politiche hanno bloccato o ritardato indagini e possibili condanne di altri colpevoli”. Ci sono voluti ben 33 anni perché sulla orribile morte di una giovanissima attivista anti-apartheid, Nokuthula Simelane, potesse finalmente essere fatta giustizia per vedere i carnefici – quattro agenti della sicurezza – tradotti dinanzi a un tribunale Sudafricano proprio grazie al lavoro svolto dalla Commissione, come ci sono voluti 23 anni per portare Hissène Habrè dinanzi alle Camere Straordinarie Africane, la Corte appositamente istituita per giudicare l’ex dittatore Chadiano accusato di numerosi crimini contro l’umanità. Un processo che, dopo quelli nei confronti di Milosevic, di Charles Taylor e di quello avviato alla Corte Penale Internazionale per il Presidente Sudanese al-Bashir, per il Presidente del Kenya Uhuru Kenyatta e numerosi altri africani, viene considerato un test di grande importanza per la credibilità del sistema di giustizia internazionale. Anche l’accertamento delle responsabilità per il massacro di Khojaly è ancora incompiuto: avvenuto durante il conflitto tra Armenia e Azerbaijan, è stato un episodio di gravità estrema, e manca ancora un’adeguata punizione dei responsabili. Dal Kossovo, al Darfur, all’Afghanistan, all’Iraq, alla Libia, alla Siria ci dobbiamo confrontare a nuovi tipi di conflitti. Sarebbe illusorio nasconderci i troppi impegni disattesi: già nel 1999 Kofi Annan scriveva: «Noi dobbiamo essere più che mai consapevoli che l’obiettivo della Carta delle Nazioni Unite è proteggere gli esseri umani: non proteggere chi abusa di loro». Questo emergente “Diritto dell’Umanità” collega il sistema normativo dei “Diritti Umani” al diritto bellico e alla giustizia penale internazionale, modificando termini di riferimento e narrativa delle relazioni internazionali». L’affinamento normativo poggia su tre capisaldi consolidatisi dal Secondo Dopoguerra: Convenzione di Ginevra, che proibisce uccisioni, torture e trattamenti crudeli, con divieto assoluto di attaccare popolazioni civili; norme convenzionali e consuetudinarie sui Diritti Umani, che obbligano gli Stati in tempo di pace a proteggere diritti individuali e collettivi sul proprio territorio; Giustizia penale Internazionale, che sposta considerevolmente la titolarità di diritti e obblighi che il Diritto Internazionale pone in capo agli Stati, percorso all’epoca avviato dal Tribunale Internazionale Militare di Norimberga, proseguito con la Convenzione contro la tortura, e consolidato con i Tribunali creati dopo i genocidi in Europa e in Africa, con la Corte Penale Internazionale, e con l’affermarsi della “giurisdizione universale” per crimini contro l’umanità. C’è uno scostamento in atto: legalità e legittimazione della forza vengono con crescente frequenza collegati ai diritti delle persone e dei popoli anziché a interessi e prerogative degli Stati. Nel prendere atto delle nette resistenze per motivi “Stato-centrici” e di interessi di potere particolari e locali, dobbiamo essere consapevoli che la strada intrapresa verso la definizione di un corpo di norme realmente “universali” rappresenta in ogni caso la scelta vincente per la migliore tutela degli esseri umani. Salva la capacità poi dotarsi di strumenti per affermare nel concreto questi sacrosanti principi in modo incisivo e con velocità adeguata a salvaguardare le popolazioni coinvolte in stragi, pulizie etniche e mattanze… COSA NE PENSATE…?


Pubblicato sulla mia pagina facebook, qui il post originale.


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